Politica

Il divario digitale ridisegna il pianeta

Le nuove tecnologie della comunicazione hanno accentuato le disuguaglianze su scala mondiale. Il ruolo dell'Italia e le opportunità offerte dal G8 di Genova in un articolo di Paolo Morawski

di Redazione

Il presente articolo è stato liberamente estratto dal supplemento n.1 del 2001 dei quaderni speciali di Limes, rivista italiana di geopolitica, di marzo 2001. www.limesonline.it Uno spettro si aggira per il mondo, lo spettro del digital divide – il divario fra chi ha il digitale e chi non ce l’ha. Sarebbe questo il nuovo Muro di Berlino, la nuova cortina di ferro immateriale, la linea di demarcazione invisibile della mondializzazione. Il successo del digitale allontana le nazioni fra loro e le separa al loro interno. Come l’affannato Bianconiglio in Alice nel paese delle meraviglie, gli Stati sono spiazzati dal dirompere dell’economia digitale e di Internet, dalla circolazione transfrontaliera dei flussi di informazioni. E intanto proclamano di volere riassorbire la frattura per distribuire ai cittadini del mondo i dividendi della società dell’informazione. Un modo – per gli Stati – di esserci, di cercare di dominare, se non già di controllare, la forza di internet che con le sue applicazioni stravolge ogni equilibrio tradizionale. A guidare ovunque il processo sono le grandi corporation, le multinazionali dell’Ict (Information and Communications Technology), i grandi gruppi multimediali – l’America. Proprio per questo dominio a stelle e strisce, paradossalmente, la collaborazione fra governi, imprese e organizzazioni internazionali ha la possibilità di rilanciarsi nella risposta da dare all’esclusione digitale. Il sistema delle Nazioni Unite infatti pare aver compiuto una scelta di campo: allearsi con il paese dominante e con il settore trainante della nuova economia – l’high-tech made in Usa. In sostanza, 1’Onu cerca di recuperare l’America (i soldi, l’intelligenza, l’impegno e il dinamismo americani) sul suo stesso terreno sposandone la lettura del mondo (la tecnologia come motore dell’economia), il pragmatismo de-politicizzato e post-ideologico (sul piano delle mentalità e dei comportamenti), la visione della sfida (1’era digitale come nuova frontiera), gli slogan (il nuovo dream è la cicatrizzazione della frattura digitale), e persino i modelli d’azione (il finanziamento congiunto e l’iniziativa combinata del settore pubblico e dell’iniziativa privata). Questa nuova strategia Onu alimenta perplessità e critiche. Eppure calza a pennello nella nuova impostazione dinamica che si vorrebbe dare alla vecchia cooperazione allo sviluppo. Per ora le iniziative di un certo spessore sono meno numerose della miriade di incontri, siti e rapporti internazionali sull’argomento. Non è facile, infatti, associare in modo operativo, inventando appropriati meccanismi di finanziamento, vecchi e nuovi attori: i rappresentanti dei paesi poveri e dei paesi ricchi, dell’industria privata e del settore pubblico, dell’accademia e del mondo associativo, dei governi e delle organizzazioni multilaterali. Questa e però appunto la soluzione che stanno esplorando, con un certo spirito di velata competizione fra loro, sia la Un Ict Task Force sponsorizzata dal segretario generale dell’Onu Kofi Annan sia la Dot Force istituita l’anno scorso dal G8 di Okinawa, in Giappone. Ambedue i progetti poggiano su una partecipazione allargata in cui le istituzioni ufficialmente incaricate di occuparsi dello sviluppo (Fmi, Banca mondiale, Onu e sue agenzie, Ocse) rappresentano solo una delle parti di un più vasto fronte dell’altruismo necessario, di cui – ancor più dei governi – è il settore privato insieme alle grandi fondazioni filantropiche a fungere ancora una volta da propellente. La nuova alleanza a geometria variabile ha buone probabilità di riuscita. Il consenso internazionale che esiste in merito al divario digitale costituisce già la necessaria premessa per rianimare la politica oggi stagnante degli aiuti allo sviluppo. Perno di questo consenso mondiale è senza dubbio l’annuale Forum economico mondiale (Wef) di Davos, Svizzera. Da Davos prima ancora che dal G8 è scaturita l’ipotesi di dar vita a una Digital Opportunity Task Force; a Davos si è appena tenuta alla presenza di Kofi Annan la prima riunione di bilancio della Un Ict Task Force; sempre a Davos si è aperto il più ampio tavolo di concertazione tra imprenditori, governi e Ong (l’’impressione e che anche questa parte moderata della cosiddetta società civile cerchi oggi di navigare nella direzione del vento ). Una nuova diplomazia della generosità è dunque in moto e sta cercando di procurarsi gli strumenti per agire. L’esito dell’’attuale congiuntura non è tuttavia scontato. Il digitale come terreno di sperimentazione di nuove forme di intervento su scala planetaria è un evento eccezionale. Alla base del lavorare assieme per il bene della comunità internazionale vi sono strategie divergenti. Un conto è investire nell’Ict per promuovere lo sviluppo di questo settore, come priorità a se stante. Altro è cercare di creare attraverso le più svariate misure (politiche, normative, economiche, sociali, educative) un ambiente favorevole al pieno dispiegamento delle potenzialità dell’Ict. Altro discorso ancora è utilizzare al meglio tutte le possibili applicazioni dell’Ict per raggiungere prioritari obiettivi economico-sociali: eliminare la povertà far decollare la crescita delle aree depresse del mondo. Per ora prevale l’entusiasmo, una febbre da ricostruzione. E il divario digitale resta il terreno di coltura di future forme di governabilità mondiale. 2. 16 novembre 2000, Palazzo di Vetro, New York, quinta edizione dell’United Nations World Television Forum . Giganteschi schermi ad alta definizione collegati a radio e Internet trasmettono l’intervento di Kofi Annan. Più di Mille leader della comunicazione in rappresentanza di oltre 110 paesi vengono invitati a riflettere su un paradosso: “il paradosso è che nella nostra età della globalizzazione sembra talvolta che solo d sapere non sia stato globalizzato. ( … ) Milioni di esseri umani nei paesi in via di sviluppo continuano a essere privi di educazione, ingrediente cruciale per la prosperità. ( … ) Non sarà facile colmare il fossato digitale. E’ la ragione per cui ho chiesto al mio rappresentante per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, l’ex presidente del Costa Rica, Jose Maria Figueres, di aiutarmi a dar vita a una United Nations Digital Task Force basata sulla collaborazione tra governi, istituzioni multilaterali per lo sviluppo, industrie private e fondazioni… Spero sinceramente che prenderete parte a questa iniziativa”. La più ambiziosa delle sfide poste oggi all’internazionale della comunicazione dunque, il digital divide. Sfida recente, riassumibile in pochi dati: il 70% circa dell’umanità non avrebbe mai sentito parlare di Internet e solo d 5% (o forse già il 6 %) ha accesso alla Rete; il 97% dei siti web, il 95% dei server e l’88% degli utenti si trova nei paesi industrializzati (Stati Uniti e Canada hanno insieme il 57% dei navigatori, mentre Africa e Medio Oriente non raggiungono insieme l’1%); il divario tra inclusi ed esclusi è raddoppiato negli ultimi tre anni . La digitalizzazione è priva di senso per la metà almeno dell’umanità che non può fare una telefonata o che non ha addirittura energia elettrica. Millenni dopo la rivoluzione agricola, nelle zone più disastrate del pianeta ancora si combatte una battaglia, lungi dall’essere vinta, contro la fame, la povertà, la mancanza di acqua, l’assenza di minime condizioni sanitarie. I dati internazionali più recenti offrono la visione planetaria di ricchi sempre più ricchi e di poveri sempre più poveri. Da questo affresco d’insieme conviene prendere le mosse. Oggi il mondo ha più di 6 miliardi di abitanti. Il 60% di essi risiede nelle aree rurali. Quasi la metà degli individui – 2,8 miliardi – vive con meno di 2 dollari al giorno. Tra questi, 1 miliardo e 200 milioni languiscono in assoluta povertà in quanto non hanno nemmeno un dollaro al giorno. Un miliardo e mezzo di persone non ha l’acqua; un miliardo sono i disoccupati e i sottoccupati; 125 milioni di ragazzi non vanno a scuola. Da solo, il 10% ricco del pianeta consuma il 70% delle risorse, mentre tutti gli indicatori sulla povertà confermano che è in atto un inasprimento delle divisioni sociali al Nord quanto al Sud . Il rapporto 1999 sullo sviluppo umano dell’Undp ha proposto un paragone, ripreso da tutti gli analisti: le tre persone più ricche della terra possiedono insieme un patrimonio più consistente della produzione annuale dei 48 paesi più poveri del pianeta. Il mondo sviluppato conta 1,2 miliardi di abitanti; il mondo in via di sviluppo 4,8 miliardi, di cui 2,2 miliardi vivono in Cina e India, il resto sparsi in circa 150 paesi. Tra 25 anni si prevedono 2 miliardi di persone in più, di cui il 97% appartenenti alle aree in via di sviluppo. Tra un quarto di secolo, dunque, il Terzo Mondo conterà circa 6,8 miliardi di abitanti. Se nulla cambia, nel 2025 vi saranno 4 miliardi di persone con meno di due dollari e 1,8 miliardi con meno di un dollaro al giorno. Come se non bastassero tutti i mali del mondo scappati dal vaso di Pandora, l’innovazione tecnologica accresce la distanza tra haves e have-nots, tra info-ricb e info-poor. Il divario digitale va in ultimo a sommarsi, a sovrapporsi, eventualmente ad acuire tutti gli altri divari già esistenti. L’obiezione a questi calcoli ingombranti è stata più volte sollevata: la vita quotidiana scorre in spazi circoscritti, non in un’astratta dimensione planetaria in cui il metro di misura sia addirittura la Terra in quanto tale. Eppure la prospettiva mondiale è nei fatti. Quasi tutta l’ict è prodotta da circa il 15% della popolazione mondiale, concentrata per la maggior parte nei paesi industrializzati. Almeno un terzo della popolazione mondiale si può considerare tecnologicamente disconnesso. (carta). Nell’elenco per fatturato delle prime 50 aziende di tecnologia dell’informazione, 36 sono americane, 9 giapponesi, 4 europee e una australiana. Nella classifica annuale delle 50 aziende più stimate nel mondo, 18 appartengono al settore Ict e media/ intrattenimento, tra cui: 12 sono Usa, 4 europee e 2 giapponesi. Esiste dunque una precisa cartografia anche per quanto concerne l’economia digitale che ha innegabilmente un cuore, alcune semiperiferie puntellate di centri di eccellenza e sterminate periferie. A rigor di logica, poiché – per ora – la digitalizzazione aggrava invece di alleggerire una divisione sotto gli occhi di tutti tra paesi ricchi e paesi poveri e tra strati sociali, quella tesa a sanare il divario digitale dovrebbe essere l’ultima delle preoccupazioni. Se invece tale battaglia è già stata consacrata anche nell’ambito delle Nazioni Unite, è perché prevalgono le speranze rispetto ai timori: la sfida è invero la migliore delle opportunità. Per riprendere il succo del discorso di Annan al Forum Onu delle televisioni, le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione non sono la bacchetta magica, epperò offrono enormi possibilità per eliminare la povertà, per promuovere l’espansione economica, per aiutare i più deboli a inserirsi nei mercati mondiali, per diffondere l’insegnamento a distanza a poco prezzo, per accedere agli incredibili vantaggi della telemedicina, per consolidare le istituzioni democratiche, per migliorare governo e amministrazione, per dare nuova visibilità alla società civile. In sostanza, l’idea vincente che si è fatta strada è che l’Ict può aiutare i paesi più bisognosi a saltare alcune tappe, talvolta lunghe e faticose, nel cammino verso lo sviluppo . Vi e un’altra ragione che ha reso popolare la questione delle disuguaglianze nell’accesso e nell’uso della tecnologia. Il divario digitale è una formula che possiede un carattere universale proprio in quanto riassume e rilancia tutte le ineguaglianze economiche, geopolitiche, sociali, culturali, generazionali, fisiche. Una formula che le re-interpreta perdipiù col linguaggio di oggi, con una terminologia appropriata a un’epoca di consumo in cui gli adolescenti del mondo ricco si trasformano in screenagers, giovani patiti di ogni genere di schermo (tv, cinematografico, computer o video-console). Non a caso è proprio la politica del mondo ricco che si è appropriata per prima della questione trasformandola in uno slogan a effetto. 3.I liberal americani, favorevoli al mercato ma con un penchant per l’intervento governativo, non si sono mai sottratti al compito di denunciare le più vistose disuguaglianze che attraversano gli Stati Uniti e allontanano tra loro i cittadini sul piano razziale ed etnico, nel campo dell’istruzione e della salute, e, in tempi più recenti, rispetto alla tecnologia e all’uso che di essa si può fare. A partire dal 1994, la nuova frontiera americana viene platealmente identificata dall’amministrazione Clinton-Gore nella costruzione delle autostrade dell’informazione e, poco dopo, nell’obiettivo di assicurare a tutti gli americani la partecipazione ai benefici della nuova era digitale. Per giustificare il proprio impegno sociale, l’amministrazione si basa soprattutto sui successivi monitoraggi del Dipartimento del Commercio Usa che, sin dal 1995, individuano l’allargamento della forbice tra technological haves e haves-not. Quindi, invocando il fallimento della mano regolatrice del mercato, avvia un piano combinato di politiche pubbliche e di iniziative private tese a distribuire più equamente i vantaggi dell’Ict tra tutti gli americani. Nasce così la sfida del digital divide intra moenia. Con quali risultati? Secondo il rapporto della Electronic Commerce Task Force durante il loro mandato Bill Clinton e Al Gore avrebbero reso Internet un più inclusivo e ospitale per gli americani riducendo i costi dei servizi base, estendendo l’accesso alla Rete di scuole e biblioteche, promuovendo vigorosi programmi di e-learning, assicurando la protezione e riservatezza delle informazioni mediche e finanziarie, mettendo online la politica del governo e i servizi della pubblica amministrazione. Chi avversa l’interventismo federale della precedente amministrazione una valutazione del tutto contraria, sottolineando l’assenza di qualsiasi legame esistente tra il lavoro quotidiano delle imprese Ict, il dinamismo dei businessmen e i retorici, sebbene tempestivi tentativi della Casa Bianca di cavalcare la digitale. Il bilancio finale delle poche iniziative avviate – come la National Information Infrastructure, l’accesso delle aree rurali, la tutela della privacy – secondo i critici, del tutto fallimentare. Lo sviluppo dell’Internet economy sarebbe avvenuto nonostante l’amministrazione, anzi proprio per merito delle lentezze della burocrazia in mano ai democratici, che non ebbe riflessi abbastanza pronti per regolamentare a tempo un settore in piena espansione. D’altra parte i progressi compiuti nel dare agli americani svantaggiati accesso alle tecnologie digitali sono stati determinati in larga misura dalle iniziative promosse dall’industria provata, dalle fondazioni e dai trust. In questo senso Clinton e Gore cercherebbero di belli con piume altrui. A dimostrazione del fatto che il divario digitale in America è sempre più elemento di lotta politica interna, la nuova anministrazione di George W. Bush ha subito dimostrato di voler cambiare rotta annunciando cospicui tagli ai governativi a favore dei tecno-esclusi delle aree rurali, delle fasce più povere e delle minoranze etniche. Particolarmente rivelatore degli stati d’animo è stato il fermento suscitato da Michael i Powell, figlio del generale Colin Powell e neo presidente eletto della Fcc-Federal Communications Commission. Nel suo discorso di insediamento del 22 febbraio scorso, egli ha infatti ironizzato sul cosiddetto divario digitale affermando che si tratta di un termine pericoloso (in quanto rischia di attribuire un significato sociale a questioni meramente tecniche) e fuorviante perché suggerisce che “nel minuto stesso in cui appare sul mercato un’innovazione tecnologica nasce un divario, finché questa nuova merce di consumo, questo nuovo lusso non é equamente distribuito fra tutte le parti della società.)”. Da questo punto di vista si potrebbe benissimo fare riferimento allora a un Mercedes Benz divide –“ Anch’io vorrei averne una, ma non posso permettermela” , ha scherzato Powell chiedendo a più riprese nel corso del suo insediamento meno stato e più mercato. Il bersaglio di questo genere di battute, si capisce, è la concezione troppo ampia del ruolo del governo federale. In particolare, l’attenzione (intrusiva per i repubblicani) con la quale l’amministrazione Clinton-Gore ha seguito ogni decisione della Fcc attribuendole (impropriamente per i repubblicani) anche il compito di sanare il divario digitale americano. 4.Mosso dalla preoccupazione di assicurare a tutti gli americani l’ingresso nella società dell’informazione e della comunicazione, il governo Usa ha cercato di esportare questo obiettivo interno su scala planetaria, chiedendo al mondo di impegnarsi per superare il divario digitale tra paesi avanzati e in via di sviluppo al fine di evitare che questi ultimi sprofondino in un “medioevo dell’informazione”. L’idea ha trovato immediato consenso tra gli imprenditori americani, già sensibilizzati dal governo riguardo al divario digitale interno. Dall’America la sfida si è estesa a tutto il mondo. Come ebbe a dire nella primavera dell’anno scorso Noboyuki Idei, presidente della Sony: “Sembra che da quando il presidente Clinton ne ha parlato, il digital divide sia diventato una parola d’ordine in quasi tutti i paesi. Credo che sia giusto dire che ormai la frattura digitale non sia più un vero problema per gli Stati Uniti, ma sia diventata invece una questione internazionale”. Qualche mese fa il francese Jean-Marie Messier, capo di Vivendi-Universal, è sembrato fargli eco dichiarando: “Il fatto più rilevante che contrassegnerà l’Internet francese nel 2001 sarà la riduzione della frattura numerica. “ Negli anni chiave 1999-2000, a evocare lo spettro del digital divide – e ad affermare per converso che l’Ict sia capace di accelerare la crescita economica e di migliorare la qualità della vita ovunque nel mondo – sono soprattutto i protagonisti dell’economia digitale: alti dirigenti e consiglieri del ramo informatico, televisivo, multimediale. Tra questi, i partecipanti all’annuale Forum mondiale dell’economia di Davos, in Svizzera, punto di incontro neutrale tra imprenditori e governi e centro di propagazione per tutti gli anni Novanta delle tesi favorevoli alla globalizzazione coniugata col libero mercato. Proprio a Davos, nel gennaio 2000, i media amplificano una vivace tenzone tra Steve Case (Aol) e Bill Gates (Microsoft) davanti a una folta platea convenuta da tutto il mondo i due leader, se da un lato decantano i meriti della new economy di cui sono il simbolo, dall’altro insistono sulla necessitä di accorciare a tutti i livelli la distanza che va scavandosi tra connessi e non connessi. Al termine del Forum, sulla scia di una serie di colloqui privati tra imprenditori, nasce una Bridging the Global Digital Divide Task Force. Il suo compito e quello di elaborare – in vista dell’imminente G8 di Okinawa di luglio – pacchetto di suggerimenti e proposte da tutto il mondo per far si che la tecnologia sia un’opportunitä di crescita e non vi siano paesi lasciati indietro . Si tratta, per dirla con John Chambers, presidente di Cisco, di “livellare il campo da gioco del mondo” puntando sulla partnership tra pubblico e privato, tra governi e business. Nel frattempo – e parallelamente alle riflessioni che vanno maturando intorno a Davos – al tema dell’esclusione/inclusione digitale dedica particolare attenzione Gbde-The Global Business Dialogue on Electronic Commerce, la lobby dei maggiori imprenditori mondiali di Internet nata a fine 1999 e capeggiata, appunto, dal presidente di Aol, Steve Case, e dal presidente di Time Warner, Gerald Levin. Nell’aprile del 2000, a New York, anche il Gbde lancia una Digital Bridges Task Force con l’intento di promuovere in tutti i continenti un ambiente favorevole a Internet e all’e-commerce. Sullo sfondo gioca la convinzione che i mercati occidentali prima o poi si satureranno, mentre molto presto si assisterà all’esplosione spettacolare di Internet nei paesi in via di sviluppo – tale esplosione va quindi adeguatamente preparata e guidata per evitare prevedibili misure protezionistiche. Nell’immediato si vuole aprire un tavolo di consultazione al massimo livello professionale per approfittare dell’interesse dimostrato dai maggiori governi per la realtà digitale – a cominciare dal governo Usa che nel 1998-1999 lancia la Ied-Intemet for Economic Development, iniziativa tesa a incoraggiare la diffusione di Internet e dell’e- commerce nei paesi in via di sviluppo. A medio termine, si tratta di influire nel modo giusto, dal punto di vista particolare del settore privato e dei suoi interessi, sulla preparazione e l’orientamento del G8 di Okinawa. A lungo termine l’ingresso della Cina nella Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, viene visto come l’apertura del più grande mercato planetario. Il Summit di Okinawa, in Giappone, si tiene il 21-23 luglio 2000. Basandosi sulla miriade di rapporti e raccomandazioni confluite nella preparazione del vertice , l’incontro affronta la doppia sfida dell’Ict: colmare il divario digitale capovolgendolo in opportunità digitale. Sotto la spinta di Bill Clinton che dà enorme risalto all’evento, gli otto grandi del pianeta sottoscrivono una Carta sulla società globale dell’informazione e lanciano l’idea di una Digital Opportunity Task Force (Dot Force). In un momento in cui lo scenario è mutevole e le regole del gioco ancora fluide, si vuole intervenire al più alto livello politico per fissare un modello di riferimento internazionale e stabilire un contesto normativo comune nel quale innervare i paesi in via di sviluppo. L’esito immediato del Summit è la creazione di un brain trust, di una struttura di concertazione leggera, più informale, aperta, veloce e creativa di quanto non siano normalmente altri luoghi istituzionali o altre organizzazioni internazionali: la Dot Force appunto. Al gruppo di esperti per l’accesso alle nuove tecnologie che la compongono vengono fissati tre obiettivi: elaborare a termine un’impostazione consensuale del problema del divario digitale che tenga conto delle diverse aspettative esistenti e includa in modo coerente e complementare tutte le iniziative già avviate; disegnare una strategia che abbia adeguata copertura politica; individuare un meccanismo per assicurare a questa strategia appropriate risorse. Sulla base del rapporto della Dot Force, il G8 di Genova in giugno lancerà un “Piano Marshall digitale” su scala planetaria? Qualche settimana dopo a Seattle, Usa, il 16-17 ottobre 2000 si tiene la Creating Digital Dividends Conference alla presenza di 350 investitori e leader del’lnternet economy . Organizzata su iniziativa del World Resources Institute (Wri), la conferenza ha lo scopo di dare ulteriore forma alla strategia del mondo imprenditoriale nei confronti della tecno-inclusione verificando al contempo l’interesse ad applicare le tecnologie digitali per uno sviluppo sostenibile. C.K. Prahalad, uno dei guru del nuovo corso, sostiene con convinzione che l’aiuto ai paesi in via di sviluppo va considerato come “un significativo mercato di business”, anzi come la “nuova frontiera degli affari” Le sue tesi sono molto applaudite, così come gli interventi del presidente di Hewlett-Packard, Carly Fiorina. Secondo la donna simbolo della net economy le aziende debbono fare profitti, pagare le tasse e… mostrare maggiore responsabilità sociale. In breve, cominciare a comportarsi come fossero un “servizio pubblico”. L’idea di abbinare l’interesse aziendale (la creazione di nuovi mercati digitali) a una nobile causa (l’avanzamento dell’umanità) sembra piacere alla maggioranza dei convenuti. Secondo il presidente del Wri, William Ruchelshaus, produrre “specificatamente per la base della piramide economica – per i quattro miliardi di persone che hanno un reddito inferiore a 1.500 dollari all’anno – non solo crea benefici sociali (digital dividends) ma anche ottimi profitti.” Il concetto e ribadito con entusiasmo dal vicepresidente di Hp, Debra Dunn: “La creazione di un mercato dello sviluppo in cui la gente possa investire stimolerà un rinascimento digitale in cui all’esplosione di creatività corrisponderà dopo un certo lasso di tempo un guadagno netto per le aziende”. La tesi è chiara: sono le opportunità di business e non soltanto la filantropia che possono portare crescita nel Terzo Mondo. A fine anno l’impegno dell’industria a sanare la frattura digitale culmina in una perfetta operazione d’immagine. La rivista Usa BusinessWeek ospita un ricco inserto di cinquanta pagine interamente dedicato al tema:” il divario digitale è un problema o un’opportunità?”. L’inserto – che presenta una sintesi guidata della conferenza – insiste, va da sé, solo sulle opportunità. Come va da sé che illustrando i progetti internazionali tesi ad abbattere le barriere tecnologiche l’inserto faccia soprattutto pubblicità alle aziende che hanno sponsorizzato l’incontro di ottobre a Seattle. A questo punto anche la formula del digital divide è pienamente entrata nell’arena del consumo raggiungendo il suo massimo livello di divulgazione in America. 5.Mentre i leader dell’economia digitale e della politica estera americana sventolano la bandiera del digital gap, si propagano le fanfare della tecnologia del primato americano. Il nuovo pensiero forte della convergenza fa riferimento senza sosta alla rivoluzione, ma senza scomodare Marx ed Engels. Afferma un’urgenza, ma priva di atti eversivi o catarsi liberatorie. Mette l’accento sulle diseguaglianze, ma senza teorizzare la lotta di classe. Si appella alle masse di esclusi, ma senza invitarle a scendere in piazza; evoca il formarsi di una nuova società (dell’informazione o della comunicazione), ma senza stadi ultimi del socialismo o del comunismo da raggiungere. E quando non chiama in causa la rivoluzione, riscopre il Rinascimento italiano per affermare – senza tema di smentite! – che “le occasioni per un miglioramento generale sono persino maggiori oggi.” Questo depotenziamento ideologico ha certamente favorito l’emergere nelle varie stanze dei bottoni di una posizione internazionalmente favorevole alla questione digitale. Asiatici ed europei hanno immediatamente colto l’importanza della sfida cercando, nel recuperare terreno, di adattarla alle specifiche condizioni regionali. Nonostante Internet sia ancora essenzialmente anglofono e americocentrico, è il suo stesso successo a eroderne il carattere troppo americano ereditato dall’impeto iniziale. A diffondersi nel mondo, dunque,è sempre più un fondamentalismo tecnologico genericamente occidentale che si vorrebbe privo dei colori dominanti dell’America. In effetti nel dibattito americano sul divario digitale interno non è mai chiara la linea di separazione tra obiettivi di mercato nelle aziende high-tech Usa e politica pubblica a favore dell’high-tech. Così come per altri versi nel dibattito sul divario digitale globale (planetario) non è mai netto il confine tra imperativi strategici dell ‘America ereditati dalla guerra fredda e affermazione mondiale delle multinazionali americane. Il sostrato strategico comune del settore privato e del settore pubblico è il sentimento straripante della supremazia Usa – la convinzione che il resto del mondo debba adattarsi alla logica, al linguaggio, ai modelli di business, alle soluzioni politiche, ai valori, al pluralismo di stampo americano. Chi vuole abbracciare la rivoluzione dell’Ict deve farlo abbracciando un pacchetto “tutto compreso” made in Usa. Ne derivano perlomeno due conseguenze. In primo luogo, la convinzione ereditata dalla guerra fredda che a prescindere dal loro effettivo operare le grandi corporation siano mosse in ultima istanza da ragioni etiche, la loro influenza essendo pertanto un beneficio per il mondo. In secondo luogo, la convinzione che la fine della guerra fredda, avendo frammentato i rapporti di potere nel mondo, comporti uno sforzo maggiore nel creare condizioni favorevoli agli interessi strategici e imprenditoriali americani. In linea con questi assunti, negli anni Novanta gli Stati Uniti hanno puntato alla costituzione di un contesto internazionale aperto al mercato – a more market- friendly system. Appoggiandosi soprattutto sulle istituzioni internazionali più propense all’America – il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, il Wto, 1’Ocse – l’amministrazione Clinton è indubbiamente riuscita ad assecondare il processo di integrazione dei mercati più lontani, favorendo la crescente interdipendenza dell’economia mondiale, interdipendenza accentuata a sua volta dall’innovazione tecnologica. 6.Tra le Lobby industriali transnazionali, i vertici del potere mondiale e le migliaia di attivisti nel mondo che proprio questo potere e queste Lobby contestano, la famiglia delle Nazioni Unite assomiglia a Ulisse tra Scilla e Cariddi. Una mossa di Annan di grande impatto è proporre – in We the Peolies. The Role of the United Nations in the 21st Century – una visione complessiva sul futuro dell’Onu, in cui vengano chiaramente individuate sfide e priorità. Il rapporto, noto anche come Millennium Reprt, contiene tra i molti temi trattati tre proposte riguardanti specificamente l’Ict: l’istituzione di un corpo di volontari (cyber troops) per formare i paesi in via di sviluppo all’uso di Internet e delle nuove tecnologie; la costituzione di un Health InterNetwork per costruire e collegare fra loro 10 mila siti di ospedali e cliniche nei paesi in via di sviluppo; la creazione di una rete cellulare e satellitare di pronto intervento (First on the Ground) per affrontare disastri naturali e altre emergenze. Pubblicato nell’aprile 2000 per servire da base di riflessione per l’Assemblea speciale del millennio di settembre, il documento è l’occasione per fare il punto sul cammino fatto. Ripercorriamolo. L’Onu, la Banca mondiale, 1’Fmi, il Gatt (oggi Wto) sono istituzioni nate più di mezzo secolo fa sotto il segno dell’apertura e della cooperazione internazionale, con lo scopo di ricostruire su basi nuove il mondo distrutto dalla seconda guerra mondiale. Questo sistema multilaterale è stato preso quasi subito nella morsa della guerra fredda. Ciò nonostante ha reso possibile l’emergere e il consolidarsi di una nuova rnondializzazione dovuta, peraltro, allo smantellamento progressivo delle barriere commerciali e alla mobilità dei capitali, al progresso tecnologico, alla rivoluzione delle comunicazioni. La mondializzazione ha superato gli equilibri nati nel dopoguerra fino alla rottura degli anni Novanta. Negli ultimi dieci anni, le Nazioni Unite sono esposte alle turbolenze di una nuova era “globale” alla quale hanno cercato di adattarsi con coraggio, sebbene tra non pochi dissidi interni. La serie di conferenze mondiali degli anni Novanta ha recepito la mutazione del contesto generale individuando obiettivi e disegnando piani di azione sulle più rilevanti tra le “nuove” questioni: l’ambiente, i diritti dell’uomo, le donne, i minori, lo sviluppo umano e sociale, la popolazione, gli insediamenti umani, la sicurezza alimentare. Ne è cambiata la concezione stessa dello sviluppo e degli aiuti necessari a promuovere la crescita mondiale: non più singoli problemi e processi, bensì interdipendenza di tutte le soluzioni e di tutti gli aspetti (dalle infrastrutture al capitale umano). Per sopravvivere nell’inedito contesto, all’Onu occorrerebbe essere meno formale e piùvivace, meno istituzione e più network capace di evoluzione rapida. Ma 1’Onu esiste per servire i paesi membri, vale a dire gli Stati. Anzi, esprime né più né meno ciò che esprime il sistema degli Stati. Può fare solo ciò che i governi gli consentono di fare (o non fare). Dal loro volere è dipesa per cinquant’anni l’Organizzazione, dagli effetti dei loro profondi disaccordi politici sono state plasmate le sue strutture. Dalle lotte politiche ha ereditato inerzie e ostacoli. Tanto più frenante è la logica degli Stati membri che – sottolinea il Millennium Report – essi aggiungono al sistema delle Nazioni Unite compiti e problemi da risolvere senza dotarlo ogni volta di adeguate risorse supplementari. Fare di più e in relazione a un maggior numero di richieste. Con quali mezzi? Il punto centrale dei ragionamenti raccolti in We the Peoples concerne le difficoltà finanziarie dell’Onu, sostenuta per statuto solamente dai contributi degli Stati membri. Nel settembre 2000 questi ultimi erano debitori all’organizzazione di 3 miliardi di dollari, di cui 1,9 miliardi (2/3 del totale) da parte dei soli Stati Uniti. Il secondo elemento di crisi è la constatazione che gli aiuti allo sviluppo continuano a diminuire. In terzo luogo, i paesi più bisognosi (Africa) attirano solo 1’1% degli investimenti stranieri. Infine, già in due periodi (1975-1983 e 1990-1995) lo sviluppo è stato finanziato soprattutto dal settore privato (grafico). Il che significa che i flussi di investimento verso i paesi bisognosi passano sempre meno per le mani pubbliche dei governi e delle organizzazioni internazionali tradizionali. La verità è che le iniziative dei poteri nazionali e multilaterali sono ormai superate dall’intervento di un numero enorme di soggetti, molto variegati e sempre più influenti, alla cui testa svettano le grandi corporation che foraggiano con i loro flussi di denaro soprattutto i paesi più disponibili ad aprirsi al mercato. Si rende pertanto necessaria l’invenzione di una nuova architettura finanziaria capace di drenare risorse. Ma come si fa a mobilitare nuove competenze e a intercettare nuove risorse? Si può certamente chiedere un maggiore impegno ai governi – è il caso del Giappone. Ma i governi non bastano. I tempi sono maturi – è la valutazione che spiega l’attuale corso Onu – per una nuova cooperazione tra pubblico e privato alla ricerca di soluzioni comuni ai problemi globali. Uno stretto rapporto con il mondo del business sta dunque al centro del progetto di riforma delle Nazioni Unite avviato da Kofi Annan nel 1997. Da allora si sono intensificati i progetti comuni dell’Onu con la Camera internazionale di commercio (Icc), con le assicurazioni e le compagnie aeree (raccolte di denaro di piccolo taglio), con le industrie della moda (ricordiamo Benetton e le sue campagne per i diritti dell’uomo), con i Rotary club, con alcuni magnati particolarmente generosi (nel 1997 Ted Turner ha donato all’Onu un miliardo di dollari!). Questi contatti giungono a maturazione all’inizi del 1999 quando, al Wef di Davos, Kofi Annan teorizza l’idea di innescare un meccanismo virtuoso che attragga le risorse dell’industria privata per aiutare lo sviluppo. “Insieme” è la parola-chiave. L’ipotesi si fa rapidamente strada. Diciotto mesi dopo, nel luglio 2000, alla presenza di un’ampia rappresentanza di grandi aziende transnazionali, Annan lancia la proposta di un Global Compact: un patto globale con le imprese su tre specifici dossier: le norme di lavoro, i diritti dell’uomo, l’ambiente. 7.La ricerca di alleati interni ed esterni da parte dell’Onu segue una logica. E’ la soluzione individuata dalla nuova leva di dirigenti per fare uscire il sistema delle Nazioni Unite dallo stallo: costituire, appunto, delle “coalizioni per il cambiamento”. – a 360°. Si tratta di creare un ambito pubblico d’intervento su scala mondiale, aperto alla partecipazione di tutti i soggetti, ognuno col proprio ruolo e compito: i governi nazionali, le organizzazioni multilaterali, i donatori bilaterali, le tradizionali banche per lo sviluppo; quindi le fondazioni filantropiche, i privati, le multinazionali, la comunità degli imprenditori; infine le forme organizzate della società civile, le migliaia di Ong; e poi i parlamenti, i poteri locali, le associazioni scientifiche, le strutture educative. Tutti questi soggetti debbono associarsi per il bene comune dando vita a network mirati, operanti al di fuori delle costrizioni abituali, con obiettivi comuni, con forme organizzative snelle, informali, anche provvisorie. Tutti insieme, diretti dall’Onu, aspirante direttore d’orchestra almeno sul piano della progettualità. Si capisce meglio a posteriori il successo di una piccola proposta scaturita nel la primavera 2000 da un gruppo di lavoro sull’Ict convocato da Annan su richiesta dell’Assemblea generale.Nell’aprile dell’anno scorso, l’idea di questi esperti di dar vita a una Un Ict Task Force poteva sembrare, poco originale – dato che già esistevano una Electronic Commerce Task Force dell’amministrazione Clinton-Gore e una Task Force on the Global Digital Divide scaturita dal Forum 2000 di Davos. Ironia della sorte, negli stessi giorni in cui essi si riunivano nel Palazzo di Vetro, a pochi passi da lì a Manhattan il Gbde definiva i contorni della sua Digital Bridges Task Force. Si trattava invece di una proposta originale, guardando al di là della terminologia. Lo High-Level Panel proponeva infatti di creare non l’ennesimo gruppo di riflessione o di consulenza, ma una vera e propria struttura operativa, un commando da sbarco, teso all’azione (in questo caso: diffondere nel mondo quelle applicazioni tecnologiche più capaci di promuovere la crescita e colmare il gap digitale dei paesi in via di sviluppo). Da creare quindi sotto la leadership di Annan e sotto l’ombrello delle Nazioni Unite, ma fuori dalle sue strutture organizzative e dalle sue iniziative tradizionali. Una nuova agenzia dell’Onu? Certamente non nell’intenzione dei proponenti. Piuttosto qualcosa di simile a quella che si definisce nel gergo delle aziende una newco (new company), o meglio un’organizzazione tecnica volta a rispondere a questioni concrete, nella tradizione delle istituzioni funzionali della seconda guerra mondiale. Una task force che sarebbe stata alimentata dall’investimento comune (finanziario, intellettuale, in risorse umane) di tre soggetti principali: il privato (l’industria dell’Ict), il pubblico (le organizzazioni internazionali) e il settore dell’altruismo (le fondazioni benefiche e i trust). In questo progetto le Nazioni Unite non sarebbero scese in campo a mani vuote, ma con una “dote”: 500 milioni di dollari attinti dall’United Nations Fund for International Partnerships. Altri 500 milioni di dollari sarebbero l’investimento dei privati. Per essere pratici fino in fondo, si sarebbe chiesto agli stessi paesi beneficiari dell’operazione di aggiungere un miliardo di dollari al fondo comune. Concretezza e determinazione sono talvolta ingredienti di successo. Nel giro di pochi mesi l’idea e rilanciata dal segretario generale, quindi ufficialmente adottata dall’Ecosoc dell’Onu, rimbalza al G8 di Okinawa, è appoggiata dai capi di Stato convenuti al Millennium Summit e presentata alla stampa il 13 novembre 2000, quando un comitato internazionale viene incaricato da Annan di progettare la “macchina “ in tutti i suoi aspetti e sondare gli eventuali partner in giro per il mondo. Lo stato di avanzamento del progetto, nel frattempo appropriatamente rimodellato, è stato discusso a fine gennaio 2001, a margine del Wef di Davos. Le prime conclusioni dell’Advisory Group sono molto incoraggianti: vi è ampio consenso sulla necessità e tempestività dell’iniziativa, Annan è ritenuto ovunque il migliore dei garanti possibili, il modello di partnership preferito ruota intorno al meccanismo delle sinergie più che del coordinamento, è richiesto un piano d’azione planetario ma si progettano concrete iniziative da condurre a livello regionale, sub-regionale e locale. Infine, programmi e progetti non saranno eseguiti dalla nuova Ict Task Force ma affidati a partner stabiliti di volta in volta. La prova su strada di questa agile, piccola e innovativa “cellula strategica”. – che già si vorrebbe composta di 37 membri, con un mandato iniziale di tre anni e con l’obiettivo prioritario di combattere la povertà nel mondo- è prevista per il prossimo settembre, dopo che il G8 di Genova avrà discusso il rapporto della sua Dot Force. 8.In questi sviluppi l’Italia ha avuto un ruolo talvolta non secondario. Guardando al futuro, che ruolo potrebbe ancora svolgere il nostro paese nella costruzione di un’Ict per lo sviluppo? Data la presidenza di turno del G8 nel 2001, l’Italia potrebbe fare da volano fra le iniziative del segretario generale e quelle del G8. In premio si conquisterebbe una posizione nell’Ict Task Force dell’Onu e in qualsiasi altra iniziativa analoga o complementare. Oltre la partita che si gioca sullo scacchiere politico- diplomatico, vi è una partita sul piano della sostanza. Possiamo essere certi che qualcuno – spagnoli, francesi, tedeschi, inglesi o americani stessi – sta già affrontando la questione del diva rio digitale tra il Nord e d Sud, l’Est e 1’Ovest del Mediterraneo, dall’Europa centro- Orientale ai Balcani al Vicino Oriente al Nord Africa allo stretto di Gibilterra. Quindi il primo e urgente interesse nazionale dell’Italia è esserci, non lasciarsi sfuggire l’occasione – pena una sconfitta secca. Per svolgere un ruolo nella regione occorrerebbe dare un senso alla tanto abusata espressione del sistema-paese. L’Italia dovrebbe fare corpo sullIct per lo sviluppo, presentarsi compatta a tutti gli appuntamenti internazionali, avere una strategia d’insieme. Un passaggio importante sarebbe inventarsi una Davos italiana, ove fare incontrare tutti gli attori per costruire una sinergia nazionale: il governo, i 50 nomi che contano del digitale e del multimediale italiano, le rappresentanze imprenditoriali, l’Università e la ricerca, le fondazioni bancarie, le maggiori Ong e associazioni di volontariato proiettate all’estero. Insomma, il gioco di squadra a prescindere e oltre i conflitti politico-economico-finanziari che arroventano il processo di digitalizzazione dell’Italia. Per ambire a un ruolo propulsore per l’Ict nell’area euro-mediterranea, converrebbe uscire dal generico e scegliere: proporsi come i referenti per le infrastrutture, per i contenuti o per i servizi, per la capacità di stimolare le start-up o di introdurre Internet nelle imprese, per le applicazioni high-tech all’educazione o alla medicina, per la digitalizzazione degli archivi non solo audiovisivi o per l’e-government e i diritti dei cittadini? Gli italiani hanno sensibilità antiche e caratteri originali che potrebbero risultare inaspettatamente preziosi nell’aiutare gli altri ad accedere alle opportunità dell’era digitale: l’abitudine a valorizzare lo specifico territoriale e il dialogo sociale, la propensione alla formazione del consenso più che al dirigismo, un approccio teso alla mediazione e alla condivisione – forse più lento, forse più umano. L’eredità coloniale italiana non ha lasciato drammatici effetti di ritorno. Il lavoro corale di definizione di una partnership per il digitale con i paesi limitrofi dovrebbe risultarne facilitato. Contare di più nell’Ict per lo sviluppo per contare di più in Europa – sarebbe una bella partita da giocare.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA