Una strada in salita, spesso tortuosa, dove la determinazione nel difendere i diritti non molla mai la presa e, anzi, fa raggiungere traguardi positivi insieme alla vita, giorno dopo giorno. Questo e molto altro è la storia di Emanuela, madre caregiver e lei stessa persona con disabilità a seguito di una patologia di tipo degenerativo.
Un connubio disarmante per chiunque e che mette a dura prova a livello fisico e psicologico senza però riuscire a sgualcire la voglia di raccontarsi e sensibilizzare, soprattutto per ribadire quanto diritti e dignità non siano opinabili. A dimostrarlo è proprio lo sguardo fiero, vivido e allo stesso tempo carico di preoccupazioni di Emanuela. «Sono nata con una malattia genetica rara, una collagenopatia degenerativa, e scoprire il suo nome è stato per me un sollievo dopo ben 37 anni in cui sono stata trattata come una visionaria», racconta schiettamente. «I primi sintomi hanno fatto capolino quando ero piccola: avevo frequenti disturbi gastrointestinali, ero goffa e cadevo spesso a terra. C’erano persone che mi davano dell’imbranata, a scuola ero bullizzata per questo, mi veniva ripetuto che non riuscivo a fare le cose come gli altri: tutto questo mi ha fatto sentire diversa e con delle mancanze.» E rivela: «La mia rivincita è stata studiare e tirare fuori il cinquecento per cento per raggiungere gli obiettivi. Certo, non si può dire che per lo sport fossi portata…», afferma sorridendo con ironia e stringendo con forza il suo inseparabile bastone.
Infanzia in salita
Emanuela cresce in un piccolo comune della Lombardia e, già da adolescente, affronta pregiudizi e difficoltà a testa alta, anche grazie a una profonda tenacia che le è stata trasmessa dai genitori. Allo stesso tempo però non si concede il diritto di non essere sempre così forte, come se la resilienza fosse l’unico modo per andare avanti, fino a che i momenti di smarrimento e angoscia cominciano ad emergere. «Mi chiedevo perché fossi sempre stanca e cadessi di frequente», spiega. «Avevo fatto diversi esami medici ma non era saltato fuori niente. Mi sentivo in colpa, come se davvero fosse tutto solo nella mia testa».
“La vita è quello che capita mentre stai facendo altri progetti”, diceva John Lennon, e anche Emanuela ha i suoi sogni da confrontare a muso duro con ciò che le accade. «Avrei voluto fare il liceo scientifico ma c’era bisogno di un diploma che potesse darmi la possibilità di lavorare e aiutare la mia famiglia e così ho fatto ragioneria che però ho dovuto abbandonare a metà del terzo anno proprio per l’aggravarsi dei sintomi», -racconta, «fino ai vent’anni ho convissuto con la paura della morte, poi ho fatto infermieristica e la mia percezione è cambiata nel poter dare un aiuto agli altri».
Dubbi e fatiche
Emanuela diventa una giovane donna e convive con il dubbio atroce di avere qualcosa che non va mentre il suo malessere resta senza un nome e quindi senza un riconoscimento agli occhi del mondo. «Mi sono dovuta fare coraggio», rivela, «i medici mi davano della pazza o della lavativa, come se m’inventassi tutto. Ricordo che la cosa più devastante erano le emicranie ed è terribile non essere creduti sui sintomi ma solo sulla base dei risultati degli esami. Il dolore spesso non è compreso solo perché non si vede e così viene trattato come una scusa per non fare delle cose. Chi convive con esso dev’essere invece rispettato a priori: non è di certo una diagnosi a dare o a togliere questo diritto».
A tal proposito Emanuela racconta che oggi soffre di problematiche sul fronte della memoria a breve termine e che i medici le hanno spiegato che questa è una sorta di difesa del suo corpo per sopportare e “dimenticare” il dolore fisico quotidiano.
Tornando alla fase che precede la diagnosi, Emanuela prosegue la sua vita stringendo i denti. «Resistevo perché dicevano che non avevo niente e alla fine ci ho creduto», chiosa con amarezza.
La giovane donna s’innamora, conclude il percorso di studi, inizia a lavorare, si sposa e diventa madre di due bambine che colmano di luce la sua esistenza. Le ombre tornano però a manifestarsi perché crescendo le figlie srotolano davanti ai suoi occhi un film già visto: quello che ha vissuto lei stessa nella sua infanzia. «A sei anni la mia prima figlia lamentava lancinanti dolori ossei e addominali e i medici rispondevano che erano causati dalla crescita», racconta, «avevano addirittura ipotizzato che fosse anoressica e che io ero troppo ansiosa come madre. La seconda aveva rischiato la vita fin dal primo anno a causa di una lassità eccessiva del tratto digestivo che causava polmoniti da aspirazione: non sapevo davvero più dove sbattere la testa, era una situazione allucinante».
In gita ma all’ospedale
I sintomi diventano sempre più eclatanti finché, dopo tanto peregrinare tra vari consulti medici, durante una visita specialista emerge l’ipotesi sulla patologia di cui soffrono Emanuela e le sue figlie e l’odissea vissuta fino ad allora approda a una diagnosi che non lascia più dubbi. «È stata dura sentirsi chiedere dalle proprie figlie perché le uniche gite che facevano fossero in direzione ospedale», commenta con tristezza.
Il presente è un gomitolo difficile da sbrogliare, la quotidianità una messa alla prova continua come confermano le sue parole: «Sono caregiver di due figlie con disabilità provocata da una patologia grave che coinvolge diversi organi in maniera impattante, in più a una delle due è stato anche diagnosticato l’autismo con Adhd, il disturbo da deficit di attenzione iperattiva, mentre l’altra ha la sindrome di Tourette e soffre di altri disturbi tra cui la spasmofilia. Io e mio marito gestiamo tutto quanto e non è per niente facile: per l’attività di caregiver mi viene infatti riconosciuto molto poco e questa è una vera giustizia del nostro Paese!».
L’impegno soverchiante di caregiver Emanuela lo deve così conciliare con il lavoro. «Ho bisogno di uno stipendio e non posso permettermi di perdere questa entrata», sottolinea, «vista la mia condizione ora sono in amministrazione ma faccio fatica a stare seduta per ore e risulta stressante a livello mentale. Soffro di forti dolori alla schiena e di problemi alla memoria a breve termine. I permessi 104 sono insufficienti per una situazione come la mia e mi sarebbe di aiuto lo smartworking ma sembra non sia possibile attivarlo».
Continuare a esser madre
Emanuela s’impegna nel frattempo per far sbocciare i sogni delle sue ragazze che si affacciano all’età adulta e mostra orgogliosa le foto di entrambe e delle creazioni artistiche della più grande, iscritta alla facoltà di psicologia con risultati brillanti, mentre la seconda studia come estetista con ottimi riscontri e ha come passione quella di fare la cosplayer. Anche l’ambito scolastico e formativo ha però dato del filo da torcere sul fronte della tutela dei diritti. «Finita la pandemia hanno tolto la possibilità, anche per chi ha una disabilità grave come mia figlia, di seguire le lezioni a distanza e ora le tocca studiare da sola e fare gli esami in presenza affrontando un viaggio in treno tutt’altro che leggero. Io l’accompagno ogni volta e ricordo che in un’occasione, a causa del ritardo del treno, le hanno fatto saltare l’esame: è stato devastante dopo un viaggio così impegnativo e con la nostra patologia». E chiede: «Sarebbe questa l’inclusione formativa?».
Emanuela racconta che si è trascurata per seguire l’iter di cure, visite e assistenza delle figlie. La disabilità, lo stress, lo stesso burden del caregiver hanno creato un cocktail micidiale tanto che la malattia le sta presentando un conto fortemente salato.
La lotta ai pregiudizi
Alla domanda di quale sia stata la cosa che le ha più creato disagio in questo percorso tortuoso, Emanuela risponde senza dubbi: «Il pregiudizio e il non essere creduta. Prima della diagnosi anche attorno alle mie figlie si era creato uno stereotipo. C’è stato chi ha detto loro che erano troppo belle per sentirsi malate e di non farsi suggestionare dalla loro madre, cioè io, perché non avevano sicuramente niente. La realtà invece ha dimostrato il contrario e le scuse non sono mai arrivate». Altro punto dolente sono stati gli stereotipi e la mancanza di una sinergia. «Mi sarebbe piaciuto creare progettualità per sensibilizzare e avevo contattato una persona con disabilità motoria molto attiva sui social per un confronto ma questa mi ha liquidato dicendo che nel caso avrei dovuto pagarle io una consulenza: assurdo!».
Medici, umani e no
Tante difficoltà da parte di un ambiente sociale, sanitario e scolastico che dovrebbe sostenere il quadro invece che creare più disagi, in contrasto con quanto promosso dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. Accanto alle ombre non sono per fortuna mancate le luci. «Abbiamo incontrato medici umani e preparati oltre a quelli che purtroppo ci hanno deriso e fatto perdere tempo. L’aiuto più grande è arrivato dall’Associazione nazionale mutilati e invalidi civili – Anmic e in particolare da una delle referenti, Roberta, la quale mi ha aiutato molto nel gestire alcuni aspetti burocratici e nel conoscere le opportunità per noi che abbiamo una disabilità. È inoltre fondamentale per chi è caregiver restare informato sui diritti e sulle possibilità di cui usufruire».
Con Emanuela gettiamo infine uno sguardo sul futuro, un pensiero continuo per lei, un macigno sul cuore: «Sono terrorizzata», rivela, mentre gli occhi le si inumidiscono, «stiamo tentando di mettere via più soldi possibili per dare un aiuto concreto alle nostre figlie ma già ne dobbiamo spendere molti ora per le visite e anche le diverse cure. Tirare la cinghia non sempre basta, vorremo fare di più, ma come?».
Una domanda che non dovrebbe nemmeno esistere se riconoscimento e diritti fossero garantiti alla base così come dovrebbe essere.
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