Welfare
I sacerdoti nel carcere. E arrivato il cappellano tecnologico
Sono 260 per 55mila detenuti. Ascoltano, aiutano. E denunciano anche via internet: "Qui si vive in condizioni subumane. Neanche la Chiesa s'indigna".
“La parola fine Dio non la mette su nessuno, e io non ho diritto di metterla su nessuno”. Questa frase è di don Virgilio Balducchi, cappellano nel carcere di Bergamo, uno dei 260 che lavorano nelle carceri italiane.
È una piccola definizione, perfetta, perché rende l?idea del fatto che un volontario in carcere può anche arrabbiarsi e scoraggiarsi, dar ragione agli agenti che lo invitano a occuparsi di anziani o bambini malati, ma un cappellano no, non deve abbandonare mai, neppure quei ?delinquentoni?, come si definiscono loro, che escono dal carcere e rientrano dopo poco.
I cappellani meno amati in carcere sono quelli per i quali l?unico rimedio è “prega, ragazzo, prega”; i veri ?preti da galera? sono quelli che incontrano continuamente vite rovinate, e non rinunciano a tentare di riattaccarne i pezzi.
Ridare dignità
Ci prova ogni giorno, nella bolgia di Poggioreale, padre Bruno Oliviero, combattivo prete ?tecnologico? che si è fatto anche un suo sito
per far pensare chi sta fuori, per far capire, in una zona di criminalità diffusa come è Napoli, che sono in tanti quelli che popolano le galere più per necessità che per scelta: “La prima riflessione che ti viene subito in mente quando vedi tanti tuoi fratelli vivere in condizioni di vita subumane per presunti reati commessi (nel caso siano veramente colpevoli) è perché mai degli uomini che sono figli di Dio siano costretti a inventarsi un?attività criminale per sopravvivere con dignità”.
Ma a Poggioreale, tre cappellani per 2mila detenuti, c?è anche don Tullio Mengon, e anche lui non usa mezze parole, e sulla Chiesa indifferente ai problemi del carcere ci va giù duro: “La Chiesa, secondo me, è nemica del carcere, come la società italiana. Nonostante abbia i cappellani e nonostante abbia i volontari. È nemica del carcere o, perlomeno, ci sono le colpevoli disattenzioni di quasi tutte le parrocchie. Io, quando ho fatto degli interventi a qualche raduno di preti, li ho sempre scioccati. Perché, mediamente, a Napoli ogni parrocchia ha almeno 10 detenuti, che vuol dire 10 famiglie alle prese con questi problemi, che si vergognano. E nessuno se ne rende conto. Voi la chiamate Chiesa, questa?”.
Don Ettore Cannavera, cappellano dell?Istituto penale minorile di Quartucciu, in Sardegna, è noto invece anche come il prete che “dà la libertà ai giovani assassini”, perché ha fondato nel 1995 la comunità La Collina per i ragazzi che, ancora minorenni, hanno compiuto un omicidio: “La galera li trasforma in delinquenti abituali, qui scoprono il valore della dignità e del lavoro: istruzione, apprendimento di una professione, psicoterapia. Bisogna dargli una progettualità. A vent?anni non essere riconosciuti nella propria dignità vuol dire perdere le speranze su se stessi”.
Più coraggio
Non ama il volontariato assistenziale, don Ettore, proprio perché è un volontariato che si preoccupa del singolo detenuto, ma non rimette in discussione l?insieme. E l?insieme è duro da digerire, in un luogo come la Sardegna, le cui carceri hanno il triste primato del più alto numero di suicidi. E mette il dito nella piaga quando sottolinea la necessità di essere volontari (e cappellani) in modo più coraggioso nella difesa dei diritti: “Il problema è riuscire a far capire che il volontariato è la società che entra in carcere, e che deve essere disponibile anche a denunciare le cose che non funzionano”. Ai cappellani si chiede di non aspettare che siano i detenuti ad andare a messa, ma di andare a cercarli nelle celle, dove stanno male.
E si sta male, in carcere, come testimonia con crudezza don Sandro Spriano da Rebibbia: “Ho fatto incontri drammatici: detenuti con le labbra cucite dal fil di ferro, altri con la lametta in bocca, urlanti nei corridoi, le braccia e le gambe tagliuzzate e sanguinanti perché non trovano altro modo per attirare l?attenzione di qualche operatore, fino al punto di tentare il gesto estremo e molti, purtroppo, ci riescono”.
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