Famiglia

Leone Nani

Partì dalla provincia bergamasca per la Cina, proprio 100 anni fa. Era missionario e per incontrare quel popolo usò un mezzo insolito: la macchina fotografica.

di Emanuela Citterio

Ha fotografato la Cina di cento anni fa con lo stile del reportage, quando il reportage fotografico non esisteva ancora. Su lastre che sviluppava da solo ha impresso la vita di un impero che stava per scomparire. Chi l?ha scoperto è stato colpito dalla felicità compositiva delle sue immagini. Eppure Leone Nani non compare nei libri di storia della fotografia. Le sue opere, 640 lastre fotografiche sulla Cina di inizio secolo, sono custodite negli archivi milanesi del Pontificio istituto missioni estere (Pime). Nel 1903, Leone Nani era partito per la Cina come missionario. Cento anni dopo, riemerge alla grande, con un libro e una mostra ospitata niente di meno che a Palazzo reale di Milano (dal 18 dicembre al 24 gennaio) e un libro spettacolare (Cina perduta, Skira, p. 223, 35 euro). Artefice di questo ritorno è Giovanna Calvenzi, la più celebre photo editor italiana. “Vidi le fotografie di padre Leone Nani per la prima volta alla fine degli anni 80”, racconta la Calvenzi. “Un amico, titolare di un?agenzia fotografica, aveva portato alla redazione di Sette, il supplemento del Corriere della Sera, dove allora lavoravo, una selezione di immagini sulla Cina di inizio secolo: l?autore ci era sconosciuto, ma la straordinaria qualità della fotografia rivelava l?opera di un fotografo d?eccezione. Pubblicammo un numero interamente dedicato alla Cina e alle immagini di Nani”. Da Albino a Pechino Ma chi era padre Leone Nani? E come mai i fotografi che l?hanno scoperto ne sono rimasti conquistati? Missionario bergamasco, originario di Albino, Nani partí per la Cina con una completa attrezzatura fotografica. Per dieci anni visse nello Shaanxi, una delle regioni più interne del grande impero. Con due macchine a lastra documentò scene di vita quotidiana, arti e mestieri, notabili e contadini di una Cina che stava attraversando un?epoca cruciale, tra la fine dell?impero e la nascita della Repubblica nel 1912. Due anni dopo, nel 1914, padre Nani fece ritorno in Italia con il suo straordinario carico d?immagini. Che oggi ci consegnano un ?mondo perduto?: ritratti di donne di alto rango con i piedi fasciati, uomini con il tradizionale codino in uso nel periodo della dinastia Qing. Ma soprattutto la vita del tempo: artigiani che lavorano la carta o la seta, folle che assistono agli spettacoli teatrali, cerimonie. Autoscatti e ironia Pochi scritti e diversi autoscatti sono ciò che resta della singolare personalità di padre Leone Nani, che in Cina documenta anche il proprio cambiamento esteriore, da giovane sacerdote in abito talare a missionario con barba e codino secondo gli usi mancesi del tempo. “Negli autoritratti Nani si mette in scena con grandissima serietà nelle situazioni più buffe, come se il suo lavoro fotografico altro non fosse che una giocosa burla, una gentile irriverenza per informare divertendo quanti avrebbero poi visto le sue foto”, spiega Calvenzi. “Il missionario impegnato e devoto lascia il posto, in fotografia, a ?Don Allegro?, come si firmava nelle lettere ai parenti in Italia, al ragazzo pieno di vita, con gli occhi maliziosi nonostante l?espressione sempre impassibile”. In una una foto Nani fa capolino dalla soffitta della sua casupola con il tetto di paglia, abitata ai primi piani da mucche e galline. In un altro fotogramma inscena una sua caduta da cavallo. “A colpirci sono stati piccoli elementi di disturbo”, fa notare la photoeditor. “In un ritratto composto in modo tradizionale, due sposi si toccavano il piede, in un gesto insolito di intimità. Un altro ritraeva un militare rigido e impettito, ma il colletto della giacca era fermato da una spilla da balia. A rendere interessante Nani è questo tocco di ironia, anzi di allegria, sempre presente nei suoi scatti, frutto di una straordinaria curiosità verso la realtà unita a una certa irriverenza”. Della vita di Nani prima della partenza per la Cina si sa che per la sua indole un po? ribelle fu quasi espulso dal seminario di Bergamo e, dalla sua pagella scolastica, che aveva una forte inclinazione per le materie scientifiche. Entrò nel Pontificio seminario dei santi aspostoli Pietro e Paolo a Roma (il futuro Pime) nel 1898, e a soli 23 anni partì per la Cina. “All?inizio del ?900 per realizzare un?immagine fotografica erano necessarie approfondite conoscenze scientifiche”, fa notare la Calvenzi. “Nani era un esperto di chimica, geomanzia, meccanica, tutte doti necessarie per produrre le lastre e stampare da solo”. Doti che appaiono ancora più straordinarie tenendo conto del contesto in cui lavorava. “Si muoveva nella Cina lontana dai grandi centri di comunicazione, una zona, come lui stesso scrive, ?perennemente umida?, quindi non favorevole all?esercizio della fotografia e al reperimento di nuove lastre o pezzi di ricambio per le sue fotocamere”. Il misterioso ritorno Le sue relazioni sulla lavorazione della carta di bambù, la pesca con il marangono, l?abolizione dell?oppio, la fine del codino mancese anticipano, secondo i photo editor, la metodologia del racconto per immagini. “Di una stessa scena Nani ritrae i particolari, le sequenze, il quadro d?insieme, in un periodo in cui il fotogiornalismo non esisteva ancora”, fa notare Calvenzi. “Basti pensare che il reportage fotografico ha bisogno del giornale che lo pubblica, e all?inizio del ?900 i giornali che pubblicavano fotografie erano pochissimi. C?era qualcosa nell?aria, tuttavia. Nani, come quasi tutti a quei tempi, era autodidatta. La sua apertura e il suo desiderio di conoscere hanno fatto il resto”. Al ritorno in Italia, il mistero di Nani-fotografo si infittisce. In Europa infuriava la grande guerra e padre Nani viene destinato all?opera di assistenza spirituale in un ospedale militare. Al termine del conflitto, torna come sacerdote diocesano nella bergamasca e nel 1922 gli venne assegnata la chiesetta della Santissima Trinità, situata a un paio di chilometri dal centro di Albino, oltre il fiume Serio. Prosegue in quella zona di campagna la sua opera pastorale, dedicandosi soprattutto ai ragazzi, con apprezzatissime attività di animazione, tra cui un artigianale cinematografo. Non rinuncia a pronunciare qualche parola in cinese e ama ancora cavalcare. Eppure, a parte alcune proiezioni delle immagini della Cina, sembra mettere completamente da parte la fotografia. La foto per l?apostolato “Sembra che per padre Nani la fotografia abbia avuto la caratteristica di attrazione esteriore, insinuante e pungente. Era lo strumento che gli consentiva di avvicinarsi maggiormente a un popolo tanto diverso da lui”, ipotizza Giovanna Calvenzi. “Certamente possedeva doti innate molto importanti ma quello che era più importante per lui era fare il missionario. Tutto il suo lavoro serve a mettersi in relazione con gli altri. Fa il fotografo finché serve al suo apostolato, smette quando non gli serve più, con una consapevolezza molto relativa delle sue capacità, se non addirittura un disinteresse”. Ecco perché, una volta tornato in Italia, ripone la macchina fotografica. Mi feci anche falegname Nella fase di allestimento della mostra di Palazzo Reale, sono stati rinvenuti oggetti e immagini spedite da Nani alla famiglia dalla Cina. Sul retro di una foto che lo ritrae mentre lavora con un artigiano cinese un pezzo di legno, si legge: “Ma vedete un po?! Il missionario deve sapersi adattare a qualunque cosa, e in un certo senso a qualunque mestiere. Nella missione in cui mi trovo, non v?era falegname, e io voleva un tabernacolo per conservare il Santissimo e aggiustare altre cose. La final conclusione estraetela dalla presente. Berettin da turista, scarpe di corda, maniche legate collo spago, veste di seta, brache a strisce, sul banco d?un cavalletto, colla morsa di due mani cinesi? ecco, ecco la vera poesia che racchiude un mondo di cose”.


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