Scuola
Il ritorno dei giudizi sintetici: Valditara contro tutti
Il giudizio sintetico non funziona se l'obiettivo è dare indicazioni chiare ai ragazzi sul loro percorso di apprendimento e anzi può demotivare lo studio. Queste sono le evidenze della pedagogia e della ricerca scientifica nel campo della valutazione. Eppure in meno di sei mesi il ministro Valditara ha ribaltato le carte, senza aver ascoltato le scuole e senza fare riferimento a ciò che la ricerca ci insegna. Elisabetta Nigris, docente di progettazione didattica e valutazione all’Università Milano-Bicocca, commenta l'approvazione del disegno di Legge sulla riforma del voto nelle pagelle della primaria
Pochi giorni fa il Senato – con 74 sì, 56 no e nessun astenuto – ha approvato il Disegno di Legge per la “Revisione della disciplina in materia di valutazione del comportamento delle studentesse e degli studenti” che, attraverso un emendamento proposto dal Governo, reintroduce le valutazioni “gravemente insufficiente”, “insufficiente”, “sufficiente”, “discreto”, “buono” e “ottimo” nelle pagelle della primaria, al posto di “in via di acquisizione, intermedio, avanzato”. Dall’anno scolastico 2024/2025, così, la valutazione periodica e finale degli apprendimenti delle alunne e degli alunni delle classi della scuola primaria sarà espressa con giudizi sintetici correlati alla descrizione dei livelli di apprendimento raggiunti. Sul tema, da mesi, c’è un acceso dibattito.
«Non finisce qui. Non ci rassegniamo al voto del Senato che ha approvato la reintroduzione dei giudizi sintetici alla primaria. Porteremo al Quirinale le oltre 8mila firme raccolte per bloccare questo colpo di mano sulla valutazione», annunciano il pedagogista Daniele Novara e il maestro Alex Corlazzoli, pronti a scrivere al presidente Sergio Mattarella prima che il Ddl arrivi alla Camera dei Deputati per l’esame finale. «Valditara in meno di sei mesi, senza alcun confronto richiesto dal mondo della scuola, in nome di una illusoria “semplificazione” e “chiarezza” nei confronti dei genitori, ha fatto approvare un emendamento di cinque righe che riporta il modello di istruzione agli anni in cui imperava un’idea di giudizio punitivo anziché formativo».
Ne parliamo con Elisabetta Nigris, docente di progettazione didattica e valutazione all’Università di Milano-Bicocca, che aveva coordinato proprio il gruppo di lavoro sulla valutazione descrittiva nella scuola primaria, introdotta nel 2020.
Professoressa Nigris, siamo al quarto cambiamento in quindici anni: fino al 2008 si usarono i giudizi, poi si passò ai voti, nel 2020 vennero introdotti i giudizi descrittivi e a partire dal 2024/25 si useranno i giudizi sintetici. Davvero ha senso cambiare con questa velocità?
I cambiamenti in questo ambito sono stati numerosi e, nel caso dell’ultima Ordinanza, addirittura repentini. Quello che però è più grave non riguarda solo e tanto la tempistica, ma il fatto che vengano attuate riforme senza aver da un lato ascoltato e monitorato le scuole, dall’altro senza fare riferimento a quello che ricerca ci insegna. È anni che la scuola viene investita da riforme lontane da chi ci vive, imposte dall’altro senza formazione adeguata e completamente disgiunta dai risultati della ricerca.
Vengono attuate riforme senza aver ascoltato le scuole, ma soprattutto senza fare riferimento a ciò che la ricerca ci insegna. Sono anni che la scuola viene investita da riforme lontane da chi ci vive, imposte dall’altro e completamente disgiunte dai risultati della ricerca
Elisabetta Nigris, docente di progettazione didattica e valutazione all’Università Milano-Bicocca
Cosa dicono gli studi?
Dagli studi degli ultimi 40 anni, possiamo dedurre che la valutazione descrittiva risulta più efficace nel promuovere e migliorare l’apprendimento di tutti i bambini (che dovrebbe essere il mandato costituzionale della scuola), che la valutazione descrittiva accompagnata da giudizio sintetico o voto riduce questa efficacia; ed infine che la valutazione espressa solo con voto e/o giudizio sintetico non funziona nel dare indicazioni chiare ai ragazzi su come ri-direzionare il proprio percorso di apprendimento quando non ottiene i risultati desiderati. Addirittura la valutazione di tipo normativo e sintetico può in alcuni casi ostacolare e demotivare bambini/e, ragazzi/e allo studio e all’impegno. Come diceva pochi giorni fa un insegnante, si pensa alla valutazione come quando si porta la macchina dal meccanico perché ha un guasto. Nel processo di insegnamento/apprendimento non funziona così. L’apprendimento è un processo complesso che necessita motivazione, legame delle proposte con l’esperienza di ragazzi/e e, soprattutto, metodologie e strumenti differenziati. E soprattutto che richiede il coinvolgimento di allievi/e nell’auto-regolazione e auto-valutazione nei e dei propri percorsi formativi.
Sant’Agostino secoli fa scriveva che «nutre la mente solo ciò che la rallegra». La professoressa Daniela Lucangeli da decenni sollecita i docenti ad evitare una didattica che “ingozza” gli alunni, che poi entrano in uno stato di alert costante a causa dei giudizi che accompagnano la valutazione, delle continue verifiche, delle scadenze che si accavallano e per l’impossibilità di dedicare tempo a ciò che amano. Le battaglie studentesche si concentrano sempre più sul benessere (o malessere) psicologico tra le mura scolastiche. Nei mesi scorsi gli studenti e le studentesse di diverse scuole superiori hanno occupato il loro istituto per chiedere un’attenzione maggiore alla loro salute mentale e per ripensare il sistema delle valutazioni. Lei cosa ne pensa?
Siamo sicuramente in una società che richiede a ragazzi/e continue prestazioni iniettando in loro l’idea di essere perennemente inadeguati o non abbastanza adeguati, anche a chi mostra un alto livello prestazionale. E questo crea naturalmente disagio. I dati ci dicono che ragazzi/e si stanno allontanando e disaffezionando alla scuola, cercando altrove le risposte alle loro domande, cercando altrove terreni in cui crescere e trovare il loro posto nel mondo. È inutile offrire corsi di orientamento se la scuola non contribuisce a sviluppare l’identità degli individui, se non promuove le capacità di discernere autonomamente, di fare delle scelte, chiedendo loro fondamentalmente di ripetere e riprodurre un sapere premasticato e lontano dalla loro esperienza personale. I giovani cominciano ad essere consapevoli di questo e a chiedere non solo “di stare bene a scuola”, ma di stare bene mentre apprendono, capendo il senso di quello che viene loro proposto.
Sottolineare solo gli errori non funziona…
Una valutazione che tenda a concentrarsi sugli errori e sulle mancanze, che mette continuamente alunni/e in competizioni uno contro l’altra, che fa coincidere il successo scolastico con il superamento di prove (spesso standardizzate e/o comunque tarate sulla verifica di apprendimenti mnemonici e/o riproduttivi) è una valutazione che premia un numero molto esiguo di alunni sulla base della loro diligenza e obbedienza, se non sulla provenienza socio-culturale come ci dicono i dati più recenti (gli alunni che hanno successo scolastico sono soprattutto i figli dei laureati). È una valutazione che produce demotivazione e disaffezione nei confronti della scuola e dello studio.
Come facciamo a motivare gli alunni?
Se vogliamo che bambini/e, ragazzi/e abbiano desiderio di imparare e acquisiscano strumenti cognitivi e culturali necessarie per entrare autonomamente nella società, allora la valutazione dovrà avere caratteristiche diverse. Sicuramente cercherà di accompagnare tutti/e gli/le studenti/tesse nel percorso di apprendimento restituendo innanzitutto e prioritariamente ciò che è stato imparato, ciò che ha funzionato, attraverso la descrizione dei processi in atto, per poi mostrare quello che ancora deve essere appreso e, soprattutto, dare indicazioni chiare su come riuscirci. Tutti gli studi internazionali ci dicono che, fra i primi 10 elementi che contribuiscono al successo scolastico troviamo una pratica quotidiana di feed back dei docenti rispetto all’andamento del percorso formativo di studenti/tesse.
Tutti gli studi internazionali ci dicono che, fra i primi 10 elementi che contribuiscono al successo scolastico c’è una pratica quotidiana di feed back dei docenti rispetto all’andamento del percorso formativo di studenti e studentesse
Alla scuola di impronta montessoriana non ci sono voti, ma valutazioni qualitative. A giugno finirà il triennio di sperimentazione in corso alle scuole medie. Cosa ne pensa di questa esperienza?
Questa esperienza ha dimostrato tutta la sua efficacia, come mostra il monitoraggio condotto negli ultimi anni evidenziando che, nella scuola capofila, che è quella che ha potuto raccogliere i dati per più trienni consecutivi, addirittura i dati Invalsi sono migliori della media lombarda, nonostante il focus del progetto educativo non siano le prestazioni dei ragazzi e tantomeno le prove Invalsi. Quello che però è più importante, che ragazzi/e che frequentano queste scuole vanno a scuola volentieri, hanno relazioni positive coi compagni (con minori episodi di disagio e/o bullismo) sviluppano l’autonomia personale e il senso di responsabilità. Sicuramente è una sperimentazione che sta dando ottimi risultati.
Nel ddl in discussione viene reintrodotto il voto sul comportamento alle medie, che farà media, e alle superiori inciderà sui crediti di ammissione alla maturità: niente 100 e 100 e lode se non si ha almeno 9. Non cambia nulla per chi avrà 5: sarà bocciato, come già previsto da anni. Per il ministro Valditara l’approvazione al Senato della riforma della valutazione della condotta «rappresenta un importante passo in avanti nella costruzione di una scuola che responsabilizza i ragazzi e restituisce autorevolezza ai docenti». Le sembra uno strumento adatto?
Mischiare la valutazione degli apprendimenti con il giudizio su comportamento è un errore sostanziale che ha già mostrato di non dare risultati né dal punto di vista degli obiettivi più strettamente conoscitivi, né rispetto alla costruzione di una maturità consapevole. Come l’esperienza montessoriana insegna, il senso di responsabilità si costruisce attraverso l’acquisizione graduale dell’autonomia in una scuola che dà credito ai ragazzi, senza bisogno di minacce.
Il ministro ha anche aggiunto: «Ritengo che nel caso di atti di bullismo non solo sia inutile ma anche dannoso tenere il ragazzo lontano da scuola, lasciato a non fare nulla. Sono convinto che l’impegno in attività sociali sia molto più costruttivo, perché lo studente possa analizzare e comprendere i motivi dei propri comportamenti inappropriati». I docenti sono preparati, secondo lei, a questo compito?
Ancora una volta, la questione non è quale cerotto utilizzare per curare la ferita, né quale sia la punizione migliore per ravvedere i ragazzi, ma quale progetto educativo i docenti sono in grado di proporre per accompagnare i loro allievi nella costruzione di una identità personale forte, nella costruzione del senso di responsabilità personale e sociale. Progetto educativo che si snoda dentro e fuori dalla scuola, come tutta l’offerta formativa dovrebbe fare. Già ora la scuola si sta spostando verso i Patti educativi di comunità in cui scuola e territorio contribuiscono alla costruzione della comunità educante e dell’offerta formativa. È su questo che i docenti dovrebbero essere formati, anche se ormai da anni il ministero non investe più sulla formazione, se non su aspetti più meramente tecnici o tecnologici.
Della scuola senza pedagogia e altre stranezze ha parlato la newsletter “Dire, fare, baciare” del 27 febbraio, curata da Sara De Carli, che ogni martedì tratta temi di educazione, famiglia, scuola. La newsletter è riservata agli abbonati di VITA (grazie per il sostegno che ci date): puoi leggere qui quel numero e se ti piace puoi abbonarti qui a VITA per riceverla ogni martedì.
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