Welfare

Così Pristina troverà la pace

Giugno 2000: a un anno dalla guerra nelle strade di Pristina

di Lisa Clark

Dopo l?intervento Nato tutto è diventato più difficile: le posizioni si sono radicalizzate, l?uso della forza è stato legittimato e hanno preso il sopravvento i violenti da tutte le parti. Anche coloro che considerano la guerra uno strumento legittimo devono ammettere che questa operazione militare non solo non ha risolto i problemi, ma li ha aggravati. I kosovari nell?ultimo decennio avevano costruito una società parallela, ribelle al governo centrale, un movimento di resistenza nonviolenta attiva. L?auto-organizzazione della società era l?elemento portante della resistenza, che aveva generato un rinnovamento sociale, una coesione di popolo, anche tra i kosovari albanesi all?estero. La classe degli intellettuali aveva esercitato una leadership ideologica: per la gente era un sogno che si realizzava. Coscientemente si era rifiutato lo scontro. Pur avendo alle spalle la cultura della restituzione del sangue, la gente aveva accettato la nonviolenza come metodo. Il movimento della riconciliazione (per ricomporre antiche inimicizie) aveva fatto passi avanti straordinari fra la gente. Ma nessuno dei cosiddetti difensori della democrazia e dei diritti umani a livello mondiale ha mosso un dito per sostenere questa forma di resistenza. Quando le potenze occidentali si sono interessate al Kosovo non hanno pensato minimamente di appoggiare i metodi della popolazione kosovara per risolvere il problema, hanno semplicemente deciso di intervenire con la forza inventandosi l?Uck che fino a febbraio 1998 era praticamente inesistente. Un anno fa, con la mobilitazione ?Io vado a Pristina e a Belgrado? promossa proprio dal settimanale Vita denunciavamo l?intervento Nato per tutta una serie di motivi: l?immoralità dell?uso della forza, l?illegalità internazionale dell?intervento e, se questo non bastasse, il fatto che un tale intervento, anche dal punto di visto pragmatico dell?efficacia, avrebbe sortito effetti assolutamente contrari alle intenzioni dichiarate. Dicevamo: se fate evacuare gli stranieri presenti in Kosovo, le forze speciali serbe avranno mano libera per compiere massacri e portare a termine la pulizia etnica; si darà piena legittimazione all?Uck di Hashim Thaqi, rendendo una soluzione negoziata sempre più difficile; bombardare la popolazione civile serba non servirà certo ad avvicinarci a loro, mentre invece è proprio sulla gente che bisogna puntare per una efficace opposizione a Milosevic che un anno dopo continua a mortificare le libertà elementari e a minacciare il Montenegro. Ora è passato quasi un anno dalla fine della guerra e purtroppo dobbiamo constatare che avevamo ragione. Esattamente un anno fa ero a Pristina, sotto i bombardamenti, insieme ad Andrea Pagliarani ed Eva Murtas dell?Operazione Colomba. Eravamo lì anche per raccontare dei preparativi che in Italia si stavano facendo per ?Io vado a Pristina e Belgrado?. In un anno è stato fatto molto: dalla fine dei bombardamenti moltissimi, tra volontari e professionisti, associazioni, ong, agenzie governative e dell?Onu, si sono adoperati per riaccompagnare i profughi nel rientro, per ricostruire le case, per rimettere in piedi servizi e istituzioni. Ma sono troppo poche le organizzazioni che hanno puntato su progetti di convivenza, di educazione alla pace, e su proposte di riconciliazione e di superamento della violenza. A favorire la ricostruzione di una società che da sola, praticamente senza alcun aiuto esterno, aveva saputo creare un tessuto sociale fondato sulla solidarietà, sulla nonviolenza, sul mutuo soccorso, sul volontariato, le autorità che organizzano, finanziano e verificano i progetti non hanno pensato.


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