Salute Mentale

Questo sarebbe un compleanno triste per Basaglia

Più di 500 operatori hanno sottoscritto un appello inviato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, per denunciare la situazione dei servizi e della presa in carico delle persone con disturbi psichiatrici. Il problema non è solo il definanziamento, ma anche il disinteresse per un modello ancora innovativo come quello basagliano

di Veronica Rossi

Foto in bianco e nero di Franco Basaglia in piano americano, che cammina, alle sue spalle altre figure

«Ieri. Guardia fino alle 20. Esco alle 23. Davanti a te, la scelta tra rimanere “sordo” all’angoscia dei pazienti, e andare presto a casa (in fondo, quella guardia neanche ti toccava). Oppure ascoltarli, i pazienti, per come meritano. Ma sapendo che sacrificherai te stesso. I tuoi bisogni personali. Che uscirai di notte. E che poche ore dopo tornerai in Centro di Salute Mentale. A coprire forse un’altra guardia, che non dovresti fare. Ma che farai. Perché non ci sono medici.

La scelta, obbligata, tra sacrificare l’interesse per la gente, per garantire la tua conservazione. oppure viceversa. Nell’indifferenza del sistema, marcio, che non pensa più a cosa serve per garantire la salute della gente – e dei suoi operatori – ma al contrario i suoi operatori li divora, ne calpesta la dignità, ne prosciuga la passione.

Basaglia diceva che fare salute mentale significa stare dentro la contraddizione. Che bisognava starci, nelle contraddizioni della società, come delle sentinelle, per affrontarle, denunciarle, combatterle. Insomma per modificarle, quelle contraddizioni. Anche i Dipartimenti di Salute Mentale oggi chiedono di stare nelle contraddizioni… ma nel senso di accettarle. Di sobbarcartele sulle tue spalle. Di accettarle docilmente, passivamente. Non ci sono medici? Non è un problema, farai il doppio tu. Ovviamente a gratis. I DSM non vogliono modificarle, le contraddizioni, ma spremerti, farti loro “oggetto di consumo”, per garantire la sopravvivenza di sé stessi. Sulla pelle dei pazienti, smarriti e delusi. E degli operatori. Che il sistema sanitario lo lasciano. Indignati. Sfiniti. O tutti e due.

Basaglia parlerebbe, forse, di tutto questo alla gente. Parlerebbe di un nuovo manicomio, fatto di disinvestimento e disinteresse. Spiegherebbe alla gente perché se va in Pronto Soccorso, o in un Centro di Salute Mentale, trova un giovane neanche specializzato, o un medico preso una tantum, a “gettone” (che spesso nemmeno conosce la tua lingua) o un medico che ti ascolta solo per 5 minuti, o che fa solo finta di ascoltarti. Spiegherebbe che questo sistema produce malattia. E fa carne da macello di chi si oppone al suo funzionamento malato. Sarebbe interessante parlarne oggi con Basaglia. Forse avrebbe orrore, nel vedere come sono messi oggi i suoi servizi. Logori, prosciugati di risorse, e dello spirito con cui (e per cui) sono nati. Chissà cosa farebbe, lui, per contrastare questa desertificazione. Forse denuncerebbe. Direbbe “mi non firmo”. Qualcosa del genere.

Io, che in confronto a lui non sono nessuno, ma ho capito che o mi ammalo o rinuncio, intanto denuncio. Forse gli farebbe piacere. Lo spero.

Buon compleanno Basaglia».

È questo il racconto di Stefano Naim, psichiatra trentottenne di un Centro di salute mentale – Csm a Modena, confluito in un appello al presidente della Repubblica Sergio Mattarella sottoscritto da 506 operatori della Salute mentale. Una denuncia potente della situazione che stanno vivendo i servizi, il cui personale è portato spesso talmente al limite da dover scegliere tra la propria vita personale e una presa in carico adeguata dei pazienti. Ma non è solo una questione di definanziamento: si tratta anche di un clima culturale che ha tradito – o che non ha mai abbracciato del tutto – la rivoluzione basagliana. «Durante la specializzazione non ci hanno mai parlato del suo approccio, se non per mistificarlo», affermano alcuni giovani medici. Abbiamo chiesto un commento a Enrico Di Croce, psichiatra che ha lavorato per vent’anni nei servizi torinesi e che si è occupato di diffondere l’appello.

Di Croce, da dove nasce questo appello?

Uno degli stimoli per questo sfogo del collega, poi recepito e fatto proprio da molti altri operatori, è stata la celebrazione per il centenario di Franco Basaglia, che è suonata abbastanza paradossale a chi conosce la realtà concreta. All’esterno sembra che si parli di qualcosa che a suo tempo è stato accettato ed è diventato lo standard, ma non è affatto così. Si sono chiusi i manicomi, ma l’alternativa concreta che era stata creata in quel periodo – la cura dei matti all’interno della società, che è il modo più corretto di prendersi cura e che richiede molti altri interventi rispetto a quello meramente tecnico – si è completamente persa. Vent’anni fa c’erano ancora alcuni posti che, almeno a parole, ci provavano e sostenevano questa idea. Oggi pare essere stata perduta anche la teoria, oltre alla pratica.

I medici non hanno idea che la loro professione si possa fare anche senza i camici, fuori dall’ospedale

Enrico Di Croce


Si tratta di una questione di mancanza di finanziamenti?

Non è solo una questione di risorse – anche se è vero che mancano e che bisognerebbe investire di più – perché per avere dei manicomi, come succede, per esempio, in Germania, si spenderebbe dieci volte tanto. Credo sia un problema culturale, che non riguarda solo la psichiatria, ma la medicina in generale. Abbiamo visto con la pandemia quante perorazioni sono state fatte sull’importanza della medicina territoriale e della prevenzione; poi, però, non è stato realizzato praticamente nulla. Non è che i medici non siano formati in generale, non sono formati sul territorio, non hanno idea che la loro professione sia qualcosa che si può fare senza camice, fuori dall’ospedale. Per carità, è necessario che ci siano persone nelle strutture che eseguono interventi tecnici sofisticati, ma tutto ciò che è patologia cronica e prevenzione non si può seguire così.

C’entra anche la formazione universitaria, quindi?

Assolutamente. Nelle università c’è un dominio culturale del modello medico-biologico, che va bene per i vaccini, per esempio, ma va peggio per la prevenzione. Come di recente ha scritto Andrea Angelozzi, primario di psichiatria in pensione, il modello psichiatrico territoriale avrebbe dovuto fare da apripista per la medicina preventiva e di base, perché fosse di prossimità, vicina ai pazienti. Si tratta di qualcosa che potrebbe essere estremamente efficace dal punto di vista sanitario, ma che non si è mai realizzato al di fuori di alcune specifiche esperienze nell’ambito della salute mentale. Bisognerebbe creare un tipo di organizzazione diverso, il modello che si usa oggi non è fatto per occuparsi di chi ha un disturbo cronico: si arriva a intervenire quando la situazione è ormai fuori controllo, in urgenza, nel reparto psichiatrico, coi farmaci e la contenzione. Poi c’è sostanzialmente il nulla.

Lavorare in modo basagliano coi matti non è impossibile: se non lo si fa è perché non interessa

Enrico Di Croce

Quindi quello che ha fatto Basaglia non è espressione del sentire della maggioranza dei medici?

Si è trattato dell’esempio di una minoranza, che, in modo un po’ illuministico e approfittando di una finestra di opportunità dovuta a ragioni politiche e sociali, è riuscita a fare approvare qualcosa che non era assolutamente nel sentimento della maggioranza dei medici o degli psichiatri. Quello che però è molto frustrante e fa veramente arrabbiare è che lavorare in modo basagliano coi matti non è impossibile: se non lo si fa è perché non interessa. Laddove lo si fa, si parte dalla costruzione di una relazione di fiducia e si è quindi in grado di intervenire nel momento critico, di lavorare con la famiglia, di andare a domicilio. Bisogna investire del tempo quando serve e adattarsi alle esigenze del paziente, cercando di farlo vivere nel mondo e attivando le risorse della società. Il grosso punto di forza di Trieste è la rete di cooperative, che collabora con il Pubblico e riesce a seguire le persone non in modo sanitario, ma curativo.

Come si fa a fare esercizi sulle abilità sociali all’interno di un luogo chiuso?

Enrico Di Croce

Cosa succede ai “matti” adesso?

In alcuni contesti c’è veramente una situazione “neomanicomiale”, per ragioni culturali. Invece di esserci una struttura da 2mila posti, ci sono realtà – come quelle che si trovano in Lombardia – che hanno magari 20 strutture da 20 posti, come i padiglioni dei vecchi manicomi. In questo modo non c’è possibilità di lavorare in maniera veramente inclusiva: come si fa a fare esercizi sulle abilità sociali all’interno di un luogo chiuso? È una cosa ridicola, una presa in giro. Il problema è che di questo non si parla quasi più nemmeno tra psichiatri.

La foto in apertura è di Claudio Ernè ed è comparsa sul numero di Vita di marzo, dedicato a Franco Basaglia

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