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Maysoon Majidi e Marjan Jamali: così lo stigma dello “scafista” condanna le donne in fuga dall’Iran

Maysoon Majidi e Marjan Jamali sono due ragazze, hanno 28 e 29 anni, e sono state arrestate perché ritenute delle “scafiste”. Da dicembre Maysoon è in prigione a Castrovillari; da ottobre Marjian è detenuta a Reggio Calabria. Una vicenda paradossale

di Alessandra Sciurba

Ci ricordiamo ancora di quando ci tagliavamo i capelli in segno di solidarietà con le donne iraniane? Ci ricordiamo ancora di Masha Amini, uccisa dalla polizia religiosa nel 2022 per avere indossato il velo in maniera ritenuta non consona, e poi di tutte le altre uccise dopo di lei per essersi ribellate? Abbiamo smesso di parlarne, anche perché stremati da tutta la violenza che nel frattempo si è abbattuta sul mondo, a cominciare da quella inaudita che sta sterminando la popolazione di Gaza, ma quelle stesse donne, in Iran, continuando a rischiare tutto, non hanno mai smesso di combattere per la loro libertà. 

E due di loro, pochi mesi fa sono arrivate in Italia. Solo che, invece di potere chiedere asilo e ricevere protezione, dopo essere riuscita a sfuggire al regime degli Ayatollah, sono state incarcerate proprio nel nostro Paese. 

Maysoon Majidi e Marjan Jamali sono due ragazze, hanno 28 e 29 anni, e sono state arrestate perché ritenute delle “scafiste”. Da dicembre Maysoon è in prigione a Castrovillari; da ottobre Marjian è detenuta a Reggio Calabria.

La prima è una regista curdo-iraniana, un’attivista che ha combattuto il regime tanto da doversi rifugiare in Iraq e poi capire di essere in pericolo anche lì e di dovere fuggire ancora più lontano. La seconda è una madre che, inseguendo la possibilità di vivere lontano dalle vessazioni, ha portato con sé il suo bambino di otto anni verso un’Europa che a parole sancisce tutele e rispetto.

È doveroso unirsi alle poche voci che stanno raccontando la loro storia, come quella di Luigi Manconi.

Entrambe sono state accusate di favoreggiamento della cosiddetta immigrazione clandestina, sulla base di poche testimonianze di persone che avevano viaggiato con loro nell’ultimo tratto del viaggio, quello in barca. Testimoni come sempre interrogati nei concitati momenti dopo l’approdo; testimoni che poi, come ogni volta, sono scomparsi nel nulla non permettendo nemmeno un controesame delle loro affermazioni da parte della difesa. Quelli che hanno accusato Maysoon, peraltro avevano solo riferito della sua partecipazione alla distribuzione di cibo e acqua a bordo. Quelli che hanno accusato Marjan sono gli stessi che, secondo il racconto della donna, hanno tentato di violentarla.


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Dalle loro celle, Maysoon e Marjan chiedono aiuto e giustizia. Maysoon ha riferito ai suoi legali di preferire affrontare il suo destino in Iran dove almeno sa benissimo perché è perseguitata, invece che continuare a essere rinchiusa in Italia per qualcosa che non ha commesso. Marjian, dopo settimane senza notizie del figlio, dopo avere ingerito in una volta sola tutti i calmanti che le erano stati dati giorno per giorno, ha chiesto invece gli arresti domiciliari per potere almeno ricongiungersi con il suo bambino mentre aspetta che il processo faccia il suo corso, ma le sono stati negati. 

La costruzione del capro espiatorio per ogni sbarco, con copioni sempre caratterizzati dagli stessi automatismi nonostante siano vite e diritti fondamentali quelli che vengono stritolati, continua a mietere centinaia di vittime all’anno. Si tratta di un meccanismo affinato da tempo, ma reso negli ultimi anni ancora più ingiusto e lontano dalle garanzie promesse dal nostro stato di diritto, perché il governo oggi in carica ha scelto proprio questa falsa battaglia come proprio manifesto di propaganda in materia di immigrazione. 

Raccontando di Maysoon e Marjan, adesso, verrebbe da sperare che almeno il fatto che si tratti di donne, e ancora di più di donne in fuga da un mondo violento e patriarcale che amiamo definire lontano dalla nostra “civiltà”, possa contribuire ad accendere i riflettori su un sistema ingiustificabile.

Ma il “femonazionalismo”, citando il titolo di un bel libro di Sara Harris, funziona proprio così: strumentalizza i temi femministi e la lotta contro la violenza di genere solo quando si tratta di soffiare sul fuoco dei razzismi e della xenofobia, mentre al contempo porta non solo a minimizzare il patriarcato nostrano, ma anche a implementare politiche e procedure che alla fine colpiscono proprio le vittime che da quella violenza cercano di emanciparsi. 

Foto di Sima Ghaffarzadeh/Pexels

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