Lavoro sociale
I due profili per l’educatore professionale, sul campo, non esistono
Il ddl 788 ha sancito la separazione tra il profilo dell'educatore professionale sociosanitario e sociopedagogico. Ma nei servizi, dice Andrea Rossi, vicepresidente della Federazione Unaped, «non esista una reale distinzione nell’agire professionale dell’uno o dell’altro profilo. Entrando in un Servizio e osservando i colleghi e le colleghe lavorare, nessuno potrebbe distinguere chi è di un profilo e chi dell’altro».
di Andrea Rossi
Il 9 aprile scorso il Senato ha approvato il ddl 788 “Disposizioni in materia di ordinamento delle professioni pedagogiche ed educative e istituzione dei relativi albi professionali”; le settimane precedenti, data l’imminente e praticamente scontata approvazione del decreto, si sono potute vedere diverse prese di posizione sul tema da parte dei vari soggetti istituzionali a vario titolo coinvolti od interessati al tema.
Tuttavia, a nostro parere c’è stata una grande assente in questo dibattito: la professione nella sua materialità, nella concretezza dell’agire educativo, nella fatica e nella gioia di condividere percorsi e relazioni con le persone che popolano i Servizi, siano essi educativi, sociali, assistenziali, sanitari o quant’altro. Si difendono posizioni acquisite, si ragiona in punta di diritto, si “segna il territorio”, ma non si entra mai nella realtà che vivono educatrici ed educatori. E si legifera sulle loro teste. Al di là della posizione che ciascuno può prendere in questo dibattito, alcuni dati sono evidenti: a fronte di un totale di EP di entrambi i profili compreso, secondo stime recenti (Crisafulli, su Sanità 24ore dell’8/12/23), tra i 115mila ed i 130mila, le associazioni di categoria mettono insieme, a stento, qualche migliaio di iscritte/i; dall’altra parte, gli albi professionali inseriti nell’Ordine delle Professioni sanitarie contano, è vero, tutte le educatrici ed educatori del profilo sanitario, ma quando si vanno ad eleggere gli organi rappresentativi la percentuale di votanti sono estremamente basse (a titolo esemplificativo, meno del 5% alle recenti elezioni delle Commissioni d’Albo di Torino e Milano). Dunque, c’è un evidente difetto di rappresentanza reale.
Intendiamoci: non si sta qui contestando la validità delle posizioni espresse; ciascuno legittimamente difende le proprie. Ma ci piacerebbe vederle argomentate in maniera più convincente e, soprattutto, auspicheremmo che fossero davvero in linea con il pensiero dei gruppi di professioniste e professionisti che si sostiene di rappresentare. È invece nostra convinzione che la grandissima maggioranza dei e delle EP ritiene insensati tanto il doppio profilo quanto il doppio canale formativo.
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Non è una convinzione solo teorica o ideata a tavolino, ma scaturisce dalla quotidiana esperienza di colleghe e colleghi che esprimono i loro pareri e ci riportano quelli di altri incontrati nella quotidianità o nelle molte comunità virtuali che raccolgono diversi gruppi di educatori sui social media. Purtroppo, non possiamo portare dati consistenti per suffragare questa ipotesi, ma ci chiediamo come mai nessuno si sia mai preoccupato di verificarla, dato che è sul piatto da molti anni.
Ancora più fortemente siamo convinti che non esista una reale distinzione nell’agire professionale dell’uno o dell’altro profilo. Non è una questione di definizione delle leggi, ma proprio di pratica professionale: gli oggetti, le azioni, le competenze sono le stesse, per gli uni e per gli altri. Non sono, nella pratica, distinguibili. Identici sono i linguaggi, le prassi operative, le priorità professionali.
Ogni produzione scientifica, specie in campo medico-sanitario, è soggetta alla verifica dell’“evidence based”. Un concetto a nostro parere in generale sopravvalutato, ma qui, nel campo della (presunta?) linea di confine tra intervento di un profilo o dell’altro, totalmente ignorato. Siamo quindi pronti a sfidare chiunque ad entrare in un Servizio in cui lavorino EP e distinguere, tra i colleghi e le colleghe, chi è di un profilo e chi dell’altro. Siamo certi, non ci riuscirà.
Dunque, che fare? La sfida lanciata qui sopra è chiaramente iperbolica (ma neanche troppo…). Vorremmo però lanciare una proposta reale, a tutti gli attori interessati a fare davvero chiarezza nella questione Educatore Professionale (qui volutamente lasciato senza ulteriori specifiche): sediamoci intorno ad un tavolo, esponiamo le nostre tesi, raccogliamo dati, facciamo ricerca. Come tutte le ricerche l’esito è incerto, e non è detto sia quello che ciascuna/o auspica per sé o per la propria parte. Ma se l’interesse non è quello della rendita di posizione personale, bensì quello di dare vita ad una professione che risponda a tutti i contesti che le appartengono e le sono appartenuti da tempo, senza dimenticare che tale professione è generatrice del welfare cooperativo, delle architetture sociali e spazia in tutti i servizi alla persona, il risultato sarà buono per chiunque, poiché porrà fine alle incertezze ed alle lotte che hanno caratterizzato questi anni e che hanno distolto risorse dalle reali e gravi urgenze che colpiscono la professione.
Andrea Rossi, presidente Associazione M.I.L.L.E. e vicepresidente Federazione UNAPED
Foto di Emiliano Vittoriosi su Unsplash
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