Non profit

Iraq, tante armi niente guanti

L'editoriale di Giuseppe Frangi sul difficili prospettive future che attendono l'Iraq.

di Giuseppe Frangi

Il 12 novembre, giorno della strage di Nassiriya, a Porta a Porta, tra i tanti ospiti ce n?era uno cui Bruno Vespa s?è premurato di toglier velocemente la parola senza tornare sulle sue affermazioni appassionate e molto interessanti. L?interlocutore, un operatore Onu, impegnato sino a qualche settimana prima nella città irachena, raccontava le condizioni disastrose in cui versavano tutte le strutture civili. E si è soffermato in particolare sui pompieri: non hanno niente, né mezzi, né pompe. Addirittura non hanno i guanti. E tutto questo in città dove assalti, sabotaggi, scontri provocano incendi a non finire. La guerra irachena è finita (?), stando all?annuncio di Bush, da oltre sei mesi. Eppure la più grande potenza del mondo, capace di spendere 140 miliardi di dollari l?anno per l?operazione in Iraq, in sei mesi non è riuscita a portare i guanti ai pompieri di Nassiriya. Difficile pensare un dopoguerra tanto fallimentare. “Temo una gigantesca Somalia”, ha avvertito Mario Calamai, consigliere del governatore della città irachena John Bourne, motivando le sue dimissioni. Calamai non è un estremista. è un maturo signore scelto dal ministero degli Esteri italiano per fare da governatore-ombra dell?area dove sono impegnati i 3mila soldati del nostro contingente. Le accuse sono circostanziate, impietose. Dice Calamai che dall?inizio dell?occupazione le condizioni di vita sono drasticamente peggiorate. Esigenze di bilancio hanno indotto Paul Bremer, plenipotenziario americano, a procedere a massicci licenziamenti, ultimi quelli del personale scolastico. Ma i problemi di bilancio non sono reali: il problema sta nella mancanza di qualsiasi macchina statale capace di gestire anche le risorse. Perché in Iraq è stato abbattuto uno Stato, senza sostituirlo con niente. Conclusione di Calamai: “Non meravigliamoci se in condizioni del genere il terrorismo trova terreno fertile per attecchire”. Già settimana scorsa avevamo documentato, con un piccolo scoop del nostro inviato Maurizio Pagliassotti, come l?esercito iracheno, improvvidamente licenziato in massa da Bremer (300mila persone senza salario da un giorno all?altro) si stia riorganizzando potendo contare su arsenali non indifferenti. E così la loro presenza minacciosa si aggiunge a quella dei terroristi e dei kamikaze a comporre un quadro davvero fosco sul futuro prossimo del Paese. Il futuro: ecco il grande enigma dell?Iraq. Quello su cui nessuno sa dire una parola. Tanti errori sono stati commessi, primo tra tutti quello di una guerra per piegare un regime che avrebbe potuto essere piegato in modi ben diversi. Difficile pensare che senza una svolta a 360 gradi da parte dei vincitori-conquistatori, la situazione possa risolversi. Il generale Angioni, responsabile del contingente italiano in Libano tra l?82 e l?84, in un?intervista ha ricordato che quando la forza multinazionale sbarcò a Beirut dopo otto anni di guerra, si pretese il ritiro dell?esercito israeliano. Sarà utopistico pensare che a Bagdad possa accadere qualcosa del genere (ma è l?augurio che ha fatto anche un sacerdote, poco incline all?utopismo, come don Luigi Giussani chiamato dal Tg2 a commentare i morti di Nassiriya: “Se una educazione del cuore della gente diventasse orizzonte di azione dell?Onu”). Ma è tragico e cinico pensare che Bagdad e l?intero Iraq debbano per forza andare incontro a un destino di caos, di quotidiana distruzione. Dove una guerra che nessuno osa chiamare più tale, chiude le porte a qualsiasi speranza per il futuro.


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