Cultura

Il popolo senza ulivi

Mario van Aken da anni studia condizione e comportamenti dei 3 milioni e 600mila palestinesi che ormai da 50 anni vivono lontani dalla loro terra (di Asli Kayabal Zavaglia).

di Redazione

La Palestina, Israele, i territori occupati di Gaza, la Valle del Giordano sono zone sempre più calde, attraversate da una guerra continua, da forme di terrorismo diffuso, da grande povertà. In queste regioni dense di conflitti non si recano solo i giornalisti, i pacifisti, le organizzazioni politiche o non governative, che descrivono le situazioni, rappresentano istanze di solidarietà o, semplicemente, cercano di portarvi sollievo. Alla nutrita pattuglia negli ultimi anni si sono aggiunti gli antropologi cui si affida il compito di capire le azioni delle forze in campo, non solo dei diseredati senza patria e senza terra, ma anche delle organizzazioni internazionali e degli Stati che, a vario titolo, compongono la trama e recitano il dramma che quotidianamente viviamo. Proprio recentemente il governo israeliano ha manifestato l?intenzione di costruire una ?barriera di sicurezza? anche nella parte orientale della Cisgiordania, lungo la Valle del Giordano, che, ove fosse realizzata collegandola all?altra porzione di muro attualmente in costruzione, circonderebbe completamente i territori palestinesi. In questo contesto sempre più drammatico (non si riesce a capire chi potrebbe fermare la volontà del premier israeliano Sharon, certamente non gli Stati Uniti e ancor meno l?Europa) è forse utile cercare di capire la realtà dei rifugiati palestinesi attraverso le parole e l?esperienza di un antropologo, Mauro Van Aken, che proprio nella Valle del Giordano svolge da anni un?attività di ricerca cui collaborano anche antropologi palestinesi. Mauro Van Aken, può descrivere la sua attività? Collaboro in modo non strutturale col dipartimento di antropologia culturale dell?Università di Milano-Bicocca. La mia ricerca, iniziata alcuni anni fa, è focalizzata sui temi dell?aiuto umanitario e dei rifugiati palestinesi. Quali sono state le sue motivazioni? In realtà ho sempre evitato di occuparmi solo dei rifugiati palestinesi perché, nonostante rappresentino un caso esemplare, molto particolare, in tutti i contesti territoriali dove sono andati hanno incontrato altre popolazioni e dopo 50 anni e passa anni non si può più parlare di comunità di rifugiati staccate dagli altri. Mi ha molto affascinato l?idea di studiare, nel caso specifico, come i rifugiati stessi, dopo generazioni, si attivassero e creassero un loro modo di auto-aiuto, un modo di far fronte a una realtà che anche dopo mezzo secolo è insicura, li mette ancora alla deriva, li marginalizza. Ho cercato di capire come loro si aiutavano e come spesso l?aiuto umanitario non avesse incontrato i loro bisogni. Questa è stata un?acquisizione importante, tenendo sempre presente che i rifugiati non sono mai isolati, ma sono sempre legati ad altre popolazioni. Cosa significa, oggi, essere un rifugiato palestinese? La questione della definizione di ?rifugiato? è una delle questioni più spinose a livello politico, a livello dei processi cosiddetti di pace, dico cosiddetti perché sono ormai quasi dieci anni che si va avanti con processi di pace, ma in realtà siamo in aperto conflitto. Secondo una definizione amministrativa (quella data da un?agenzia delle Nazioni Unite, che si chiama Umrua) nella categoria di rifugiati sono compresi circa 3 milioni e 600mila persone, tutte sotto l?assistenza dell?Onu. Non tutti i palestinesi sono rifugiati e non a tutte le persone che sono scappate è stato riconosciuto lo status di rifugiato. Cosa differenzia la condizione dei palestinesi da quella degli altri rifugiati? Il legame ultracinquantennale con le Nazioni Unite. I palestinesi sono l?unico gruppo ad avere una propria organizzazione specifica, mentre tutte le altre comunità di rifugiati, dai curdi agli ugandesi, ai somali, fanno riferimento all?Alto Commissariato per i Rifugiati. I palestinesi sono sotto l?Umrua, nata, ancora prima dell?Alto Commissariato, esclusivamente per loro, costituendo l?unico gruppo che non ha ancora una nazione, ma ha un?agenzia dell?Onu tutta per sé. I rifugiati palestinesi hanno il riconoscimento di rifugiato, che è una carta, che si eredita di padre in figlio. E questa carta è rivendicata (è uno dei pochissimi casi) dai discendenti dei primi rifugiati. Cosa significa questo? Che oggi, in un campo di rifugiati ad Amman, i figli che non hanno mai visto i loro villaggi e che probabilmente non torneranno mai in Palestina o in quello che dovrebbe diventare lo Stato palestinese, esprimono comunque una rivendicazione forte, diventata simbolo politico, perché è l?unico riconoscimento internazionale di quello che è successo nel 1948 e poi nel 1967. Che tipo di differenza c?è tra i rifugiati adulti e quelli giovani? Oggi esistono quattro generazioni. Si va dal nonno al nipotino. Ci sono delle differenze enormi nel modo di concepire l?essere palestinese. Il nonno parla il dialetto dei villaggi, la nonna cucina ancora le pietanze tipiche del villaggio d?origine, i quartieri sono definiti in base ai nomi dei villaggi da cui si proviene. Lo stesso vale per i campi dei rifugiati in Giordania: i quartieri hanno i nomi dei villaggi che, spesso, sono villaggi scomparsi. Questo per i nonni, per la vecchia generazione, per la quale la memoria tragica dei villaggi distrutti o delle case abbandonate è diventata fondante per la loro identità odierna. Per le nuove generazioni da un lato rimane questo fortissimo attaccamento, che in antropologia definiamo riproduzione identitaria, basata su territori che non hanno mai visto e che non vedranno mai, su villaggi che sono scomparsi, perché molti villaggi sono stati distrutti nel 48 o sono diventati aranceti o altro ancora. L?essere palestinese significa riattivare quei legami familiari, vuol dire cercare di sposarsi con una cugina rimasta nei territori occupati, non solo per conservare i legami familiari, ma anche per riuscire a ritornare, cercando di ottenere (negli ultimi anni anche questo è diventato sempre più difficile) il permesso di residenza prima e di lavoro poi, sia nei territori occupati che in Israele. Questa è una strategia importantissima, tutta basata sull?identità familiare o anche tribale, nell?accezione di un?identità familiare più estesa. Come trascorre la giornata di un rifugiato? Ci sono situazioni molto diverse. Io conosco meglio la realtà della Giordania e dei territori occupati. Ho lavorato anche con rifugiati che non vivono nei campi e spesso le loro condizioni sono peggiori perché non godono dell?assistenza sanitaria ed educativa. Tutti i rifugiati da più di 50 anni hanno comunque questi servizi e le scuole e gli ospedali delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi sono stati addirittura un modello tra i più alti per tutto il Medio Oriente. Da qui anche l?alta scolarizzazione dei palestinesi che hanno potuto fruire di un servizio spesso qualitativamente eccellente.Un aspetto molto importante per la vita quotidiana nei campi sono le reti di solidarietà, spesso legate a quelli che io chiamo i riti di ospitalità. L?ospitalità è un?istituzione sociale e politica fondamentale. Tra i beni immateriali che i palestinesi si sono portati dentro, vi è sicuramente questa capacità culturale di ritrovarsi, di stare insieme, di solidarizzare. è un rito in cui si investe molto tempo e anche molti soldi, essenziale per definire il contesto in cui si cerca aiuto, solidarietà, informazioni. Tutto avviene nel contesto dell?ospitalità, che necessariamente si è adeguata alla nuova realtà dei campi. E il lavoro? Molto spesso i campi dei rifugiati sono stati le sacche di manodopera per i centri industriali che venivano aperti. Nella Valle del Giordano, ad esempio, hanno rappresentato la manovalanza a basso costo per il lavoro nei campi e per lo sviluppo agricolo, costituendo le classi più povere e sfruttate. Adesso c?è stratificazione. Ci sono dei rifugiati palestinesi che sono business-man internazionali. All?interno della categoria dei rifugiati c?è di tutto. Ci sono rifugiati che stanno molto meglio di molti italiani medi. Il problema è che ci sono grosse fette di popolazione rifugiata che vive in questo stato di permanente temporaneità e di profonda marginalizzazione, e non vede che soluzione potrà mai avere. Non è un caso che in tutte le discussioni sui territori occupati in Israele si evita di parlare dei rifugiati perché non si sa cosa fare. I palestinesi sono in maggioranza contadini. Come vivono la lontananza dalla loro terra? Ho lavorato con rifugiati che vivevano in zone agricole e che sono stati reintegrati in progetti agricoli e quindi hanno potuto confrontarsi con il loro vecchio lavoro. L?aspetto più importante è l?identità, per cui l?ulivo, l?aranceto, le spezie, tante erbe aromatiche e tutto ciò che faceva parte dell?immagine del villaggio contadino, di quella cultura che in arabo si definisce fellah, sono rimasti uno dei segni più importanti dell?identità attuale. Negli anni 90 Arafat ha incentivato la cultura contadina marginalizzando tutto ciò che incarnava i simboli beduini, facendola diventare un simbolo fondante della politica nazionale. Ha affermato la metafora delle radici, che non debbono essere sradicate, contrapposta a ciò che stanno facendo da dieci anni le forze israeliane, che hanno già divelto 200mila ulivi e ne sradicheranno altri 100mila se il progetto di Sharon sulle ulteriori barriere di sicurezza sarà approvato. Gli ulivi abbattuti sono uno degli elementi simbolicamente più forti e terribili per la comunità palestinese. Un?ultima domanda. L?antropologia classica studiava le tribù primitive. Oggi, a sentire lei, il mestiere di antropologo è cambiato profondamente… Malinowski negli anni 30 diceva che bisogna studiare non solo le tribù primitive (che costituivano la figura classica dell?antropologia) ma anche i primitivi bianchi nell?Africa che stava già cambiando, cioè bisognava studiare il contesto in cui anche i primitivi bianchi arrivano con i loro riti, le loro credenze, le loro ideologie. In questo caso i nostri primitivi bianchi sono la Banca mondiale, l?Agenzia delle Nazioni Unite che arrivano con una cultura, con pregiudizi, con rappresentazioni, con forme di potere. Oggi l?antropologo deve affrontare anche questo. E ha a che fare con comunità che sono sempre dislocate. Io lavoro in situazioni dove sono presenti i rifugiati palestinesi, ma convivono con pakistani, con egiziani migranti, con beduini. Chi è più dislocato? Chi appartiene a quel luogo? L?antropologo per capire la realtà deve partire dall?idea di dislocazione, piuttosto che dall?idea di sedentarizzazione.

Asli Kayabal Zavaglia


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