Cultura

Uno strano soldato

Avevano la divisa, portavano le armi, ma sul loro vocabolario non avevano la parola guerra (di Paolo Manzo, Benedetta Verrini, Stefano Arduini).

di Paolo Manzo

Marco Beci, 43 anni di Pergola, in provincia di Pesaro, era in Iraq inviato dal ministero degli Esteri, direzione generale per la Cooperazione allo sviluppo. Beci, una giovinezza come volontario della Caritas, era un valutatore di progetti di intervento umanitario, il primo alleato delle ong. Massimo Ficuciello, 35 anni, tenente dell?esercito, volontario. Figlio di militari aveva voluto prendere una laurea, a Padova, di peacekeeping con uno dei mostri sacri del pacifismo italiano, Antonio Papisca. Ivan Ghitti, 30 anni, era vicebrigadiere dei carabinieri. L?Agesci lombarda lo ricorda così: “Per anni ha vissuto il cammino scout fino alla scelta di dedicare la propria vita al servizio del prossimo nell?arma dei carabinieri”. Giuseppe Colletta, 39 anni, vicebrigadiere dei carabinieri. Era impegnato, con la moglie, nell?Azione cattolica e per la parrocchia di San Vitaliano. Quella moglie che ha commosso tutta l?Italia leggendo la pagina del Vangelo sull?amore ai nemici: “È morto facendo quello che aveva sempre voluto fare, perché è morto portando aiuto ai bambini di Nassiriya”. Sono quattro biografie tra quelle dei 19 caduti italiani a Nassiriya. Biografie che hanno indotto Adriano Sofri a sollevare una questione che ci sembra cruciale. Ha scritto Sofri su Repubblica: “L?abitudine a contrapporre il volontariato civile a quello militare è una stupidaggine. Può darsi che nel lutto di questi giorni ci sia qualche eccesso di zelo sugli italiani brava gente. Ma tutto quello che avevo visto – televisto – e sentito sui carabinieri italiani in Kosovo li faceva stimare come un?efficace e premurosa associazione volontaria: senza di loro né la incolumità, né l?esistenza quotidiana della minoranza serba sarebbe stata assicurata. (…) Se avessi autorità farei moltissimo conto dello stato d?animo e della volontà di carabinieri e soldati. C?è un?Italia che attraverso queste esperienze sta prendendo le misure del mondo e di se stessa. Non è il contraltare del volontariato civile, ne è, almeno può essere, l?alleata”. È davvero così? Vita ha rilanciato la questione. Ecco le testimonianze raccolte. Il generale di Intersos. Impariamo a conoscerci Fernando Termentini è generale in ausiliaria. Da quasi quattro anni coopera quale consulente tecnico nel settore della bonifica umanitaria e le problematiche di sicurezza di Intersos. Il mondo del volontariato civile e quello militare devono imparare a conoscersi meglio, a cominciare dal periodo della formazione. Sotto questo punto di vista, da anni ormai propongo la creazione di corsi ?misti?, in cui i volontari insegnino ai militari la situazione-Paese dal punto di vista sociale e delle necessità umanitarie, e i militari a loro volta le fondamentali norme di sicurezza per muoversi in uno scenario di conflitto. Credo che sarebbe un modo per imparare a conoscersi, pur partendo da due diversi approcci alla vita, e per fare un intervento che va a vantaggio di uno stesso beneficiario. Io, per esempio, collaboro con Intersos ma non sono affatto un militare ?pentito?. Ho svolto il mio compito, con la divisa addosso, in tanti scenari diversi, dal Pakistan alla Somalia, alla Bosnia, sempre al servizio del mio Paese e della Costituzione, lavorando per spegnere i conflitti. Dopo questa carriera, per la lunga esperienza che avevo fatto nel settore della gestione della logistica di emergenza e della bonifica di mine e ordigni esplosivi, mi è sembrato naturale continuare a lavorare, da volontario, con Intersos. Credo che i nostri militari abbiano tanto da insegnare, per la correttezza e l?approccio sereno. Per il modo in cui, intervenendo, sanno conquistarsi la stima della gente. In Iraq, purtroppo, questo non è bastato. La divisa ha rappresentato un elemento di pericolo, li ha trasformati in obiettivi. Con il Cesvi a Bassora. “Niente confusioni” Ermes Frigerio è cooperante del Cesvi. Ha lavorato ai progetti della ong a Bassora e ha conosciuto molti soldati italiani a Nassiriya. Quando si parla di coordinamento e cooperazione, fatti specifici i compiti delle organizzazioni umanitarie e dei militari, sono d?accordo con Sofri. Ma, quando mi si dice che anche i militari distribuiscono gli aiuti umanitari, come facciamo noi, lì non sono d?accordo. Perché si devono definire bene i compiti degli uni e degli altri. Non possiamo fare le stesse cose. Ma, visto che noi non possiamo fare operazioni né di polizia né di ripristino della pace, e nemmeno andare a cercare i terroristi, io credo che ci sia bisogno di più rispetto verso ciò che fanno le organizzazioni umanitarie e per come lo fanno. Perché dare aiuti umanitari è sempre una cosa delicata: si devono valutare tante cose. Mentre per un esercito la finalità è molto politica: l?aiuto umanitario è distribuito per garantirsi un?accoglienza e un compiacimento da parte della popolazione locale. Questo, invece, non è il nostro fine e noi, spesso, abbiamo dei problemi con le autorità locali, perché vogliamo raggiungere un certo target di popolazione. Il direttore dell?Avsi. “Almeno ci tutelano” Alberto Piatti è direttore generale dell?Avsi, una delle maggiori ong, con progetti in Iraq. I militari in missione di pace sono una presenza essenziale per il mantenimento di un ordine pubblico relativamente stabile, e per la tutela degli operatori umanitari. I rapporti che Avsi ha avuto con loro sono sempre stati improntati alla massima collaborazione, e al rispetto reciproco. Nessuno ci ha mai imposto, né ci hanno vietato di fare qualcosa. A parte il fatto che ho visto militari costruire ponti e ospedali? È chiaro, bisogna dialogare, affinché la presenza di una forza di pace e di una ong sia armonica, rispetto al contesto in cui si opera. Inoltre l?Italia ha una specificità tutta sua, anche quando manda i soldati per fare il peacemaking. Noi abbiamo alle spalle la tradizione di un popolo che ha visto l?emigrazione, ha sofferto la fame, è stato invaso da altri popoli e ne ha subito le violenze. Noi abbiamo un patrimonio genetico, che discende anche dalla tradizione cristiana e solidaristica laica, che dà una qualità di presenza oggettivamente diversa dagli altri. I nostri militari sono molto più facilmente propensi a capire e ad accogliere i problemi delle genti che incontrano. Una lettera in redazione. Quello spirito di umanità Questa lettera ci è arrivata da Giuseppe Beccaria, presidente della Lvia, associazione internazionale di volontariato. è indirizzata ai carabinieri. Ci pare di riconoscere, al di là delle differenze dei Paesi in cui operiamo, dei compiti che ci troviamo a svolgere, delle motivazioni personali che li determinano, una esperienza umana concreta che ci accomuna e ci fa sentire particolarmente vicini. è l?esperienza di allontanarsi volontariamente per un certo periodo di tempo dalla propria casa. Con o senza divisa. Non per la gloria o il denaro. Ma per una voglia di pace e di giustizia che non si ferma ai confini delle carte geografiche, ed eleggendo a propria patria l?umanità. La voce della Croce rossa. Italiani, un?altra cosa Maurizio Scelli, commissario straordinario della Croce Rossa italiana. A Nassiriya e Bagdad lavorano 100 persone della Croce rossa italiana. Non riesco nemmeno a chiamarli carabinieri. Quelli erano ragazzi che dopo otto ore di lavoro, smettevano la divisa ed entravano in ospedale per darci una mano, qualcuno ha persino imparato a fare l?infermiere. Chi pontifica sull?inopportunità di far collaborare personale armato in operazioni umanitarie non sa di cosa parla. Io laggiù ci sono stato 5 volte e noi con la loro presenza ci sentivamo davvero protetti. Non so quante volte, dopo aver comprato i giocattoli per i bimbi, passavano la sera con loro. Gli iracheni hanno capito che americani e italiani sono diversi: quando passavamo noi con la scorta dei carabinieri tutti alzavano il pollice in segno di assenso, e in tanti sorridevano.

Paolo Manzo, Benedetta Verrini, Stefano Arduini


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