Cultura

E ora difenderò i più disperati

Giustizia. Parla l’avvocato di Andreotti Giulia Bongiorno, dopo la vittoriosa difesa del senatore a vita, annuncia i suoi propositi: "Dedicherò più tempo al gratuito patrocinio".

di Francesco Agresti

La porta dello studio in piazza San Lorenzo in Lucina, nel centro di Roma, è aperta da un segretario: «Una piccola rivincita», spiega sorridendo l?avvocato Giulia Bongiorno, ricordando quando agli inizi, per ottenere il rispetto dei suoi clienti, indossava occhiali finti e teneva in mano sigari che non ha mai acceso. Laurea a 23 anni, nonno, papà e sorella avvocati civilisti: un destino segnato. All?età in cui gran parte degli studenti di Giurisprudenza non ha ancora conseguito il titolo accademico, le viene proposto di seguire una delle vicende giudiziarie più importanti degli ultimi anni: il processo Andreotti. La Bongiorno ha solo 27 anni quando inizia a occuparsi del caso che terminerà solo dieci anni più tardi, con una assoluzione con formula piena. Ora finalmente avrà più tempo da dedicare a un progetto cui tiene molto. Vita: Quando e perché ha deciso di dedicare parte della sua attività professionale al patrocinio gratuito di casi disperati? Giulia Bongiorno: Personalmente vivo la mia vita come una sequenza di cose che debbo fare correndo, accartocciandomi, purtroppo, su me stessa e sui miei interessi. Nei rari momenti in cui riesco a fermarmi, mi rendo conto che ciò che mi interessa non è la cosa più importante, che ce ne sono altre che non fanno parte dei miei immediati interessi anche se non ne ho la percezione. A volte si è proiettati verso un obiettivo, si è concentrati solo su quello: una volta raggiunto ci si chiede il perché di tanto impegno, e solo allora si capisce che oggettivamente non era così importante. Io mi domando come si possa restare indifferenti davanti a cose terrificanti che capitano ad altri e come si possa star male per fatti molto più piccoli che capitano a noi stessi. Allora mi rendo conto che c?è qualcosa che non va, tento di capire come si può uscire da questo egoismo che implica solo il soddisfacimento immediato di quello che io voglio. È l?unico mio riscatto in questa vita piena di rincorse. Per questo ho intenzione di ampliare lo studio e destinare dei collaboratori solo ai casi disperati. Vita: Lei viene da una famiglia di civilisti. Perché scelse di diventare penalista ? Bongiorno: A Palermo abitavo sopra lo studio legale di famiglia e mio nonno già a cinque anni, scherzando, mi presentava come la futura avvocato Bongiorno. Era uno studio di civilisti, immobile, silenzioso. Come clienti avevano dei pacchi di carta, esclusivamente carte. In me c?era già il fascino della professione ma anche la consapevolezza di non volere avere a che fare solo con pezzi di carta. All?università ho capito che mi sarei occupata di penale. Vita: E quindi di processi. Bongiorno: Il processo è un dramma, inizia una stagione della vita in cui ci si sveglia e oltre alla quotidianità si deve pensare al processo. È una specie di malattia: come non si può prescindere da una malattia, non lo si può fare neanche da un processo. Diventa parte della vita. La situazione poi diventa insostenibile quando si viene, giustamente o a torto, privati della libertà prima del processo. Nel sistema giudiziario italiano non vi è la consapevolezza di cosa voglia dire essere privati della libertà. Vita: Una condizione che può portare un uomo a compiere gesti estremi, ultimativi. Bongiorno: Ho assistito spesso, nella fase preprocessuale, a delle umiliazioni che segnano definitivamente le persone. Ne ho conosciute alcune disposte a tutto pur di uscire, pronti a inventare accuse nei confronti di altre persone, a confessare reati non commessi. Questo non vuol dire che il carcere non serve, ma ci vuole grande cautela. Ci sono persone che una volta fuori continuano a passeggiare in tre metri per tre. Anche se hanno più spazio non riescono ad andare oltre. Vita: Cosa c?è che non va nel sistema giudiziario italiano? Bongiorno: È necessario un bilanciamento di poteri tra accusa e difesa. I pm possono utilizzare la polizia giudiziaria per svolgere le indagini, un privato invece deve sostenere ingenti spese per avere le stesse possibilità. Nel 1992 affidammo a un investigatore statunitense l?incarico di verificare le dichiarazioni di un pentito negli Usa, ma fummo costretti a revocare l?incarico dopo solo un giorno, la parcella sarebbe stata quattro volte le intere spese processuali. Dovrebbe esserci un organismo che conduca le indagini anche per conto della difesa, oppure delle agevolazioni per chi deve difendersi. Anche perché quando un cittadino viene assolto non riceve alcun indennizzo. Nel processo Andreotti abbiamo vinto, ma abbiamo scontato quasi metà della pena. Vita: Che idea si è fatta dell?omicidio Pecorelli? Bongiorno: Gli inquirenti hanno cercato i mandanti tra personaggi di rilievo, in realtà non credo che Carmine Pecorelli fosse un giornalista che potesse intimorire Andreotti. Nel corso del procedimento è emerso che pur di ottenere dei finanziamenti per il suo giornale faceva ?richieste insistenti? a diverse persone. Probabilmente le piste investigative da seguire erano altre. Ci si è concentrati sulle dichiarazioni di un pentito perdendo il bandolo della matassa, dimenticando che i pentiti sono ex delinquenti, gente che ha tutto l? interesse a sostenere alcune tesi, e perdendo di vista la realtà.


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