Europa
Il grande inganno dell’economia di guerra
Sono in molti a pensare che «l’economia con la guerra ci guadagna» ma nulla è più falso di questa proposizione. La guerra ha effetti devastanti sulla prosperità economica dei Paesi che la subiscono. Pensiamo solo al crollo del 30% del Pil dell’Ucraina
Sul rapporto tra economia, guerra e pace esistono vulgate distorte e luoghi comuni totalmente errati. Sono in molti a pensare che “l’economia con la guerra ci guadagna” ma nulla è più falso di questa proposizione. La guerra ha effetti devastanti sulla prosperità economica dei Paesi che la subiscono. Il Pil ucraino è crollato di circa il 30% nel 2022 ma oltre a questo dato di flusso la guerra ha avuto un impatto assolutamente negativo anche su stock come ricchezza e debito.
La guerra inoltre ha quasi sempre l’effetto di bloccare parte dei canali commerciali di scambio di beni e servizi tra Paesi. Ciò non vuol dire che non ci siano settori (come quello della vendita di armi) che traggono beneficio da un conflitto armato ma va sempre considerato che stiamo parlando di settori che rappresentano una quota assolutamente irrisoria del Pil dei paesi (mediamente attorno al 2%) e dunque non compensano gli effetti negativi molto più profondi sugli altri settori.
La logica del conflitto fa riferimento ad una visione vecchia e perdente di economia, quella per la quale la torta del prodotto è fatta di beni scarsi ed è fissa e bisogna combattersi per strappare una fetta più grossa (più terra e materie prime a me meno a te). L’economia moderna si fonda su logiche completamente diverse. Le torte sono di dimensione variabile e possono essere più grandi e di miglior qualità nella cooperazione tra soggetti con risorse e competenze complementari. Cooperazione ed innovazione dunque stravincono sul conflitto. Usando il linguaggio delle operazioni algebriche potremmo dire che nell’operazione della cooperazione si genera superadditività, ovvero un risultato superiore alla somma di quanto i partner avrebbero realizzato da soli (uno con uno fa più di due). Nell’operazione del conflitto invece parte della risorsa contesa si distrugge e dobbiamo spendere molte risorse per difenderci/attaccare l’altro (uno contro uno fa meno di due). Uno degli esempi storici più rilevanti di passaggio dalla logica perdente a quella generativa è la nascita della Ceca la comunità europea del carbone dell’acciaio che pone fine a secoli di conflitti in Europa per la contesa di risorse minerarie ora messe in comune.
Un altro luogo comune e un’altra idea profondamente sbagliata che è alla radice di questo ragionamento fallace è che la contesa per le materie prime sia essenziale e da essa dipenda la ricchezza di popoli e Paesi. La storia del secondo dopoguerra in realtà insegna che i due Paesi che hanno fatto maggiori progressi sul fronte dello sviluppo economico (Italia e Corea del Sud) sono Paesi quasi del tutto privi di materie prime mentre Paesi che ne hanno in abbondanza (africani e latinoamericani) vivono dilaniati da conflitti o afflitti dal “Dutch disease”, la malattia olandese e dalla maledizione delle risorse naturali. La ragione di ciò sta nel fatto che la componente maggiore del valore aggiunto creato nelle filiere è fatta di competenze e capacità tecnologiche ed innovative e che fidarsi troppo nelle rendite che derivano dal possesso di materie prime crea un incentivo perverso ad uno scarso investimento in tali competenze.
In un certo senso l’economia di guerra o di pace ha anche a che fare con il modo in cui produciamo energia. Nel mondo delle fossili la proprietà delle risorse è concentrata mentre nel mondo delle rinnovabili la produzione può essere partecipata e diffusa dal basso. Si può pensare di fare una guerra per la conquista di riserve di petrolio o carbone (così fu ai tempi della contesa tra Germania e Francia che terminò con la messa in comune di carbone ed acciaio grazie alla nascita della Ceca che sarà il primo passo per la costituzione dell’Unione Europea) ma è difficile che si scateni una guerra per conquistare il pannello del vicino. E’ peraltro vero che anche la produzione di energia da rinnovabili ha colli di bottiglia su alcuni materiali rari e concentrazioni di produzione di beni intermedi (pannelli, batterie) in paesi come la Cina. L’innovazione tecnologica di questi anni sta però progressivamente lavorando per ridurre questa dipendenza.
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Un’altra dimensione nella quale guerra ed economia sono agli antipodi è quella del commercio internazionale. Un famoso economista come David Ricardo ha sviluppato la teoria dei costi comparati che spiega come l’interazione commerciale e la specializzazione tra paesi genera più valore per tutti (il famoso esempio del tempo era la ripartizione tra Portogallo e Inghilterra di produzione di vino e tessuti). La globalizzazione dei mercati ha massimizzato i risultati derivanti da quest’approccio con una divisione del lavoro internazionale che attraverso il commercio ha aumentato significativamente produttività e risultati economici. L’accordo sottinteso era fondato sul trasferimento di una parte importante delle manifatture in Cina che ha dato una spinta enorme alla crescita del reddito in quel paese quasi azzerando la quota della popolazione sotto il livello di povertà assoluta. Oggi quell’approccio multilaterale aperto è in crisi e in discussione e ciò mette a rischio anche la nostra risposta alla sfida del riscaldamento globale che per essere efficace richiede necessariamente un approccio cooperativo e multilaterale attraverso l’impegno congiunto di tutti i Paesi.
Foto La Presse: il Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel che ha chiesto ai leader dell’Ue di passare alla “modalità economia di guerra” per rispondere alla minaccia rappresentata dalla Russia
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