Formazione

Che paura fanno due braccia aperte

Il dibattito che divide l'Italia e che infiamma i talk show suona surreale ai sacerdoti in prima linea. Che sul sociale giocano la loro vita. Ma che sul crocefisso non fanno sconti.

di Giuseppe Frangi

Don Gino Rigoldi ha affrontato il problema moltiplicandolo per tre. Al Beccaria, il carcere minorile di cui é cappellano, di croci ne ha attaccate tre: “Perché insieme a Cristo, quella volta appesero anche i due ladroni”. Al Beccaria i figli di famiglie musulmane non sono certo una minoranza. Ed é altrettanto certo che non si tratta di famiglie di facile integrazione. Anche don Virginio Colmegna, carismatico direttore della Caritas ambrosiana, ha le idee già molto chiare. Nella sua Casa della carità, nuovo tempio dell’accoglienza nella Milano del terzo millennio, il crocefisso ci sarà. “Eccome se ci sarà”, ribadisce a Vita, al termine dell’annuale presentazione della ricerca sull’immigrazione. Tonio Dell’Olio, coordinatore e anima di Pax Christi, s’infiamma e si commuove, quando a proposito di crocefisso, gli vengono alla mente le meditazioni di don Tonino Bello. E da Torino, padre Francesco Bernardi, alla testa degli attivissimi missionari della Consolata, manda a dire che quel crocefisso non é l’ultimo atto. Poi quel tipo é risorto: bel messaggio per tutti i poveri Cristi del 2003.
Sono così i preti di frontiera. Te li immagini dialoganti, pronti a rinunciare a veste, riti e simboli pur di abbracciare il diverso, di non destare scandalo, e invece sono devoti, devotissimi a questo crocefisso che uno sventurato giudici dell’Aquila vorrebbe strappare dai muri di quelle aule in cui é ancora rimasto appeso.

Un segno debole
Virginio Colmegna
, un prete che in nome degli ultimi sa puntare agli ultimi piani della finanza e dell’industria, vede nel crocefisso un eccezionale segno di debolezza. “Davanti a un debole, come ci si fa a sentire degli esclusi? Semmai ci si sente meno soli. Certo che se il crocefisso viene imbracciato come simbolo di una civiltà finisce con operare effetti esattamente opposti. Ma chi lo fa, agisce per scelte politiche che con la fede davvero c’entrano poco”. Mai incontrato un immigrato che abbia manifestato imbarazzo o insofferenza davanti alla croce? Colmegna é persin stupito della domanda. “Mai. Davvero. Come potrebbe essere altrimenti? La croce é un segno di nonviolenza. Di un’inutilità sempre più utile”.
Un mai che suona netto anche sulla bocca di Tonio Dell’Olio. “Qui abbiamo stanze per offrire ospitalità. Ognuna ha il crocefisso. Ma se ospito una persona di fede diversa, per rispetto, lo tolgo dalla camera che gli é stata destinata. Ma dove sono io, il crocefisso resta. E’ casa mia e non ho nulla da nascondere riguardo alla mia storia e alla mia identità. Ma…”. C’é un “ma” in questa posizione lineare e rispettoso di don Tonio. “Sì: non pensiamo che i segni parlino. Io per esempio farei una distinzione tra croce e crocefisso. La prima al limite é un simbolo di morte. Il secondo invece é un uomo che ha offerto se stesso. E’ una bella differenza. Per questo mi viene da sorridere quando si pensa di voler regolare una questione così con delle leggi, quando invece si dovrebbe spiegare chi é quell’uomo in croce e far capire che uno così può semmai unire, non certo dividere”.

Schiodare gli uomini
Dell’Olio é stato fortunato, perché sulla sua strada aveva incontrato don Tonino Bello, personaggio carismatico e attento al dolore degli ultimi, che sulla croce gli aveva fatto un indimenticabile “corso di formazione”. Gianni Novello, responsabile della fraternità di Rossano Calabro, ha studiato i testi del vescovo fondatore di Pax Christi e sottolinea alcuni spunti che nel dibattito di oggi acquistano un accento davvero umano. Dice Novello: “La croce ci ricorda che tocca a noi schiodare la gente dalla croce stessa, ricordava don Bello. Insomma siamo chiamati a deporre la gente da quel legno. Per lui la croce era quasi una strategia sociale”.
Di “poveri Cristi” parla anche padre Francesco Bernardi da Torino. Conosce bene il mondo islamico, viaggia molto e gli spiace vedere che anche in Italia si approdi a sentenze parossistiche come quelle dell’Aquila. “Mi ricorda le volte che sono atterrato a Gedda e il personale mi raccomandava di tener ben nascoste croci e crocette. E pensare che quando sono in Paesi musulmani e vedo Allah decantato da qualche bellissima scritta resto solo ammirato. Non mi sento né estraneo né escluso”. Ma poi Bernardi rivela un piccolo segreto: “Mi sento più affezionato alle immagini di Maria con il bambino. Mi sembra che quella davvero parli a tutti in termini di tenerezza e di accoglienza”.
Che la croce possa essere elemento di disturbo é argomento su cui don Rigoldi davvero non ci sente. “Sono gli adulti che si fanno questi problemi. Qui da me, in oratorio, ho marocchini a iosa. E non ne ho mai trovato uno che si sia detto turbato”. Già ma lei come glielo presenta? “Dico a tutti che é finito in croce per fedeltà al suo ideale. A quel punto per tutti diventa un grand’uomo. E poi non scordiamo che il Corano sa bene chi sia Gesù e come lo uccisero. Non é davvero uno sconosciuto per l’Islam”.
Domanda finale a tutti. Se il crocefisso non é un’ideologia, vuol dire che c’é un crocefisso cui, in qualche modo, é legata la vostra vita. Uno particolare, che vi ha commosso. Don Colmegna: “E’ il crocefisso di San Damiano, segno straordinario della vita di san Francesco”. Don Dell’Olio: “E’ quello che portava al petto Tonino Bello. Aveva un’immagine molto confusa, come distrutta dal dolore. Mi ricordava quel versetto di Isaia in cui il profeta annunciava che il Signore per la sofferenza non aveva più neppure sembianze umane”. Padre Bernardi: “Più che la croce é la Pietà di Michelangelo. Per la tenerezza della madre che lo accoglie nelle braccia. E poi perché é un po’ più vicino alla risurrezione”. Infine don Gino, che va un po’ controcorrente: “In casa tengo un’immagine del Sacro cuore. Era di mia madre, ho sempre pregato davanti a quella, anche da bambino. Ci sono affezionato. E’ una cosa semplice, mi sta bene così”.

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