Mondo
Somalia il Paese che non cè più
Sapete perché masse di disperati fuggono verso le nostre coste? Perché la loro patria è uno stato senza stato. Ed un commento di Daniele Scaglione.
Immaginate uno Stato senza governo. Senza sanità, istruzione, trasporti, fognature, acquedotti e altri servizi pubblici di base. Senza una banca centrale, senza tasse, senza un registro delle aziende, senza targhe per le macchine e senza alcuna speranza di uscire in breve tempo da una guerra civile che dura da più di 10 anni. Immaginate che questo Stato sia grande due volte l?Italia, per un totale di 10 milioni di abitanti spesso colpiti dalla fame e da una mortalità infantile che tocca 133 neonati su mille, e capirete cos?è la Somalia oggi.
La legge delle armi
“Uno Stato non Stato in cui si entra senza visti e documenti”, spiega padre Sandro de Pretis della Caritas di Gibuti. “Per volare su Mogadiscio, basta avere i soldi e decidere su quale pista atterrare. Nella capitale della Somalia, quasi ogni signore della città ne ha una”. I volontari e cooperanti delle 40 organizzazioni non governative presenti nel Paese, di cui 10 italiane, in genere chiedono un passaggio sugli aerei della Commissione europea che coordina gli aiuti da Nairobi. Ad attenderli, in Somalia, c?è sempre una scorta. Armata, come i signori della guerriglia che controllano il Paese dal 1991. Quando il dittatore Mohamed Siad Barre è stato spodestato da una coalizione di capotribù. E quando “il ricorso a mitra e fucili è diventato il modo più comune di risolvere qualsiasi tipo di controversia in questo Stato che ormai è un buco nero di instabilità, criminalità, export di armi e di rifiuti tossici”, denuncia Sandro De Luca, responsabile Somalia per l?ong Cisp che si occupa di educazione e sanità a nord del Paese, nella regione di Bari, e nelle regioni del Galguduud e Mudug con 5 espatriati. Ma con chi cooperano, i suoi uomini, in questo Stato teoricamente retto da Abdulkassim Salat Hassan, presidente ad interim del Transitional National Government (Tng) che governa a malapena qualche quartiere di Mogadiscio?
Cooperare con i clan
“In mancanza di un sistema sanitario”, spiega De Luca, “ci coordiniamo con chi, in maniera informale, prova a costruire dal basso una cultura di gestione del bene comune. Primi fra tutti, i clan”. “O gli elder, gli anziani delle varie comunità”, racconta Nino Sergi di Intersos, ong che dal 1994 si occupa di salute nella zona di Giohar, vicino a Mogadiscio. “Spesso, sono stati proprio gli anziani e i diretti beneficiari dei nostri progetti a proteggerci e ad avvertirci di possibili pericoli”. Di chiedere protezione e allearsi coi warlord, i signori della guerra locale, non se ne parla. “Oltre che pericoloso, sarebbe inutile”, confessa da Nairobi, Francesco Baldo, responsabile della missione in Somalia dell?ong bolognese Cefa. “Nell?arco di 24 mesi, la durata media di un progetto di cooperazione, il signore a capo di una determinata area può cambiare anche tre volte”.
È alle comunità locali con cui lavorano da anni che s?affidano i 7 cooperanti del Cefa impegnati in progetti di sostegno all?agricoltura nel sud del Paese. E per i fondi, “a un governo italiano che continua a tagliare i finanziamenti alla cooperazione”, dice Baldo. “Con aiuti pari a 14 milioni di euro l?anno, l?Italia è il secondo donatore della Somalia dopo la Commissione europea che destina al Paese 140 milioni di euro annui. Ma potrebbe fare molto di più, soprattutto considerando l?impatto che i progetti di cooperazione potrebbero avere sulle masse di somali che fuggono verso l?Italia passando dalla Libia. Se riuscissimo a potenziare l?agricoltura, tenendo i somali attaccati alle loro terre, si eliminerebbe la pressione sulle coste italiane”. A trattenere i giovani somali, difatti, oggi non c?è quasi nulla.
Emigrare o combattere
I giovani che si iscrivono all?università sono appena il 2%. Le coste del Paese, ricche di pesci e di aragoste, sono monopolizzate da flottiglie giapponesi e russe contro cui le imbarcazioni somale non possono competere. “A parte lavorare per un paio di compagnie private che hanno realizzato la rete di telefonia mobile e fissa più potente del Corno d?Africa, l?unico mestiere che resta a molti è quello di fare l?uomo d?armi”, confessa Sandro De Luca. “Credo che se fossi un giovane somalo forse cercherei di emigrare anch?io”.
La speranza di risolvere i problemi in tempi brevi, è praticamente nulla. Ci ha provato l?Onu, all?inizio degli anni 90, ma ha fallito. E, mentre scriviamo, ci riprovano alcuni Paesi del Corno d?Africa riuniti a Nairobi per tentare di rilanciare una conferenza di pace sulla Somalia. La quattordicesima conferenza di pace organizzata in Kenya da un anno a questa parte.
SE I SOMALI SCAPPANO, E’ ANCHE COLPA NOSTRA
Il 3 dicembre1992, l?Onu diede vita all?Unitaf, una missione guidata dagli Usa cui fu concesso di usare ogni mezzo per far sì che in Somalia potessero svolgersi operazioni umanitarie. Nel marzo seguente, il Consiglio di Sicurezza sostituì l?Unitaf con il più grande dispiegamento di caschi blu della storia: 28mila militari con il potere di usare la forza.
Ma il nuovo ordine mondiale crollò. Dopo uno scontro con i miliziani in cui morirono tra 500 e mille somali, ma soprattutto 18 suoi ranger, nel ?93 Washington ordinò la ritirata. L?Onu ridusse il suo impegno e nel marzo 1995 chiuse la missione. Il Paese rimase in balìa dei signori della guerra.
L?aiuto internazionale ha consentito l?istituzione, nell?ottobre 2000, di un governo di transizione che ancora oggi controlla solo una parte meridionale del Paese. Due regioni, il Somaliland e il Puntland, hanno rivendicato la loro indipendenza. Oltre alle ong e alle associazioni, a sostenere la pacificazione dall?estero sono rimasti solo alcuni funzionari dell?Onu e la Lega araba. Ma i colloqui di pace in corso a Nairobi appaiono sempre più confusi. Per le potenze occidentali il Paese è tornato d?attualità solo dopo l?11 settembre 2001, perché sospettato di ospitare campi di addestramento di Al-Qaeda. Accusa mai provata.
Da noi, di Somalia non si parla volentieri. L?uccisione di Annalena Tonelli ci ha costretto a farlo. Ma l?impegno di questa donna e la sua tragica fine non scagionano l?Italia. Prima colonizzatori, poi sostenitori del regime di Siad Barre, infine partecipi alla missione Onu con un contingente che ha creato problemi, accogliere i somali che si affidano alle carrette del mare per noi dovrebbe essere il minimo.
Daniele Scaglione
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