Connessioni

Filantropia europea, cooperare per innovare

Istantanee dalla due giorni di Philea a Milano (7-8 marzo): i protagonisti, le idee, i progetti del grande rassemblement europeo. Il desiderio di rompere gli schemi verticali, legati ai singoli territori, condividendo di più, anche i fallimenti. Il nodo dell'impatto. La collaborazione di Acri e Assifero

di Giampaolo Cerri

Philea buona la prima. Quello di Milano, 7-8 marzo nella sede suggestiva di Cariplo Factory, era infatti il primo Research forum dedicato al tema dell’innovazione sociale, e l’impressione che se ne ricava è di un confronto utilissimo per i 120 rappresentanti di fondazioni filantropiche da tutta Europa. «Sì era la prima conferenza», conferma Ilaria D’Auria che a Bruxelles dirige i Programmi di questo storico rassemblement della filantropia continentale, «perciò è stata anche un po’ una prova. Abbiamo avuto il supporto sia di Acri che di Assifero e più del di tre quarti dei partecipanti erano fondazioni ma di grandezze diverse».

Rompere le cattive abitudini

Il titolo che Philea s’era data, con un filo di ironia, era infatti Breaking Bad (Habits): how can foundations move from siloes to shaping future innovation ecosystems, vale a dire “Rompere le cattive abitudini: come le fondazioni possono muoversi dai silos per costruire futuri ecosistemi di innovazione”. E, malgrado appunto la velata ironia del titolo, i contributi sono stati molto seri, spesso appassionati, con un’interazione continua fra palco – dove si succedevano i 24 speakers – e la platea, magistralmente coordinati dalla scrittrice e regista Vivienne Parry, vera briton, sia per lo spirito vivace sia per la capacità di tenere l’auditorio, con stentorei richiami alla ripresa dei lavori dopo ogni pausa.

Delphine Moralis, ceo Philea

Filantropia, capacità uniche

Delphine Moralis, ceo di Philea, l’aveva detto, in apertura: «Il ruolo della filantropia è cambiato», aveva esordito, «le fondazioni hanno fatto una profonda riflessione sulla gestione e ora, oltre gli schemi tradizionali, lavorano sempre più sul modello del partenariato, della collaborazione, dell’essere porta e della costruzione di ponti. Tutto ciò è estremamente necessario poiché, in effetti, l’Ue spende ancora al di sotto dell’obiettivo medio del 3% del Pil annuo in ricerca e sviluppo, al di sotto della spesa relativa di Stati Uniti e Giappone per la stessa area». Non solo, restando «il mercato Ue frammentato, con barriere all’innovazione che rendono difficile per le buone idee raggiungere la loro piena realizzazione potenziale, la filantropia può svolgere un ruolo. E noi di Philea», aveva sottolineato Moralis, «crediamo nel valore di riunire le fondazioni, che ciò consenta loro di imparare dai fallimenti e dai successi, per costruire e migliorare, nello sfruttare le capacità uniche della filantropia».

Innovazione cioè apertura

Uno che con l’innovazione fa i conti tutti giorni e che dell’innovazione è uno dei massimi finanziatori privati italiani, a capo dell’area ricerca e trasferimento tecnologico di Fondazione Cariplo, è Carlo Mango. Non si è perso un minuto del dibattito, spesso ne è stato protagonista, e non solo perché, essendo il padrone di casa – è consigliere delegato di Cariplo Factory – avesse obblighi di ospitalità. «Il concetto di silos nell’ambito della scienza è molto noto», osserva con VITA, «è quello che un tempo veniva associato all’idea di torre d’avorio. Il punto è uscirne e proiettarsi verso un dialogo con gli operatori che, insieme a noi, fanno lo stesso lavoro, ma soprattutto aprirsi verso la società civile. Si tratta di un percorso dove se si parte dalla ricerca o poi si arriva all’innovazione».

Carlo Mango, Fondazione Cariplo, intervistatato da Vivienne Parry

Fondazioni, la forza dell’intersettorialità

Una sfida non solo continentale: Sushma Raman vive e lavora di là dall’Atlantico, essendo la presidente e ceo di Heising-Simons Foundation, fondazione familiare nella Bay Area, con sedi a Los Altos e a San Francisco, in California. «Finanziamo una serie attività, dalla scienza al clima, all’energia pulita, all’educazione della prima infanzia. E lavoriamo sui diritti umani negli Stati Uniti, con particolare attenzione alla detenzione degli immigrati e alle questioni di giustizia penale», spiega a VITA. È un’autentica leader filantropica, con un’esperienza ultraventennale alle spalle, sia alla Open Society Foundations, dove ha gestito un programma da 50 milioni di dollari per i diritti dei migranti e dei rifugiati, sia alla Fondazione Ford.

«Le fondazioni hanno due strade per abbattere le barriere di cui si parla», osserva, «e la prima è all’interno della filantropia stessa, dove cioè le fondazioni possono parlarsi, collaborare tra loro, costruire partenariati. È l’opportunità delle lezioni condivise, perché molto spesso ognuno di noi lavora su sfide e problemi simili, ma dai propri punti di vista e istituzioni isolate». La seconda? «La seconda raccomandazione che darei riguarda il lavoro intersettoriale, ossia la collaborazione con le comunità locali, ong o società civile, mondo accademico e in alcuni casi governo e imprese a seconda del contesto e delle questioni su cui ti stai concentrando. Sono tutti modi in cu in cui possiamo superare l’individualismo e pensare all’impatto sociale collettivo».

Sushma Raman

L’Europa a filantropia variabile

Le due giornate si sono sviluppate fra confronti interessanti, di esperienze e di buone pratiche, avendo chiaro, grazie alla stessa ricognizione presentata da Philea, con Sevda Kilicalp, capo della ricerca e dello sviluppo della conoscenza, che si parla di un movimento che nel Vecchio Continente assomma oltre 186mila enti, registrati come “public benefit foundations” a livello nazionale, con patrimoni complessivi per 647.5 miliardi di euro, ed impieghi – erogazioni e investimenti diretti – per 54,5 miliardi all’anno.

Un’Europa a intensità filantropica variabile: si va dai 12,9 miliardi erogati dalle fondazioni di Francia (dato che impressiona perché riferito a un bacino di sole 685 realtà filantropiche), i 10,7 della Germania, gli 8,5 della Spagna, i 4,3 della Gran Bretagna, i 3,5 della Svizzera e i 3,49 della Danimarca.  L’Italia sta a mezza classifica con 0,91 miliardi.

Con questo quadro in mente, si è andati ad ascoltare e a confrontare esperienze in atto.

Parlare di Innovazione mirata tra sfide globali, soluzioni locali ed eque opportunità, di Fondazioni come hub di conoscenza e innovazione, dell’esperienza di Skydeck a Milano, nell’area ex-Expo oggi impreziosita di scienza e competenza da Innovation Mind – dove spicca anche una grande realta dell’innovazione sociale come Fondazione Triulza – ha offerto un’esaltante zoomata su cosa il concerto di pubblico, privato profit e filantropia possa realizzare.

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Start-up, grazie anche a chi dona

Come il caso della start-up italiana Biomimx, presentata dall’italiana Paola Occhetta, giovane ingegnere biomedico del Politecnico di Milano che, coi suoi colleghi, realizza organi artificiali, completamente digitalizzati, non da impiantare ma in grado di fornire ai trial farmaceutici risposte affidabili come quelle degli organi umani. Futuro, presente.

Non meno esaltanti la tedesca Silica Corpora che, come ha raccontato il fondatore Jaime Rossellò, disegna nuovi farmaci con l’intelligenza artificiale, o la francese Hylight che, come ha spiegato il ceo Martin Bocken, ha inventato minidirigibili per ispezionare le reti di telecomunicazione, risparmiando tonnellate di C02 emesse dai sistemi utilizzati sin qui.

Collaborazioni sperimentate

Confronti serrati e molto partecipati da un pubblico attento e curioso, si diceva all’inizio, ma anche momenti non formali fra alcuni professionisti che collaborano da anni, come il già citato Mango e Ignasi Lopez Verdeguer, direttore Research and Health Institutions, dalla fondazione de “la Caixa”, la grande banca catalana: i due hanno ricordato la collaborazione fra i due enti, nei primi giorni del Covid-19, quando la pandemia, dalla Lombardia sbarcò a Barcellona.

«Lunghissime telefonate durante i lockdown», ha detto il catalano, «per capire come muoverci». E l’italiano ha rammentato: «Ricordo un consiglio di amministrazione della Fondazione fatto di sabato sera, a poche settimane dalla “paziente zero” di Codogno (Lo), per deliberare gli aiuti agli ospedali. Riuscimmo a mettere in piedi con Regione Lombardia e Fondazione Umberto Veronesi un progetto che, se me ne avessero parlato poche settimane prima, avrei detto che avrebbe avuto bisogno di mesi e mesi di lavoro». Sì perché la filantropia, quando è fatta bene, non sta nell’Iperuranio: si occupa di risposte ai bisogni degli uomini e delle comunità.

Grandi e piccoli enti: imparare gli uni dagli altri

E non si pensi che il forum milanese sia stato un concerto per voce sola: le differenze sono emerse, come quando la co-chair Marta Lazarowicz, presidente della Fondazione per la scienza polacca, intervenendo assieme a Giovanni Azzone, presidente Cariplo e Acri, ha ricordato: «Io rappresento una fondazione molto più piccola e dovremmo renderci conto che il panorama è costituito anche da molte, molte organizzazioni di dimensioni ridotte, con risorse molto più limitate. E capire che c’è poi una sfida su dove inserire le quelle risorse molto limitate per apportare un cambiamento. Quindi», ha concluso, «immagino che sia davvero incredibilmente importante imparare gli uni dagli altri e condividere esperienze, ma non aspettarsi una soluzione da chiunque».

Giovanni Azzone con la maglia Acri

Si diceva di Azzone, a una delle sue prime uscite europee come presidente Acri. L’esperienza e il dinamismo del personaggio sono stati palpabili: il rettore che ha guidato una delle migliori università d’Europa, il Politecnico di Milano, è parso davvero l’uomo della Provvidenza nella successione a Francesco Profumo. Idee, presenza e uno squisito il tratto di understatement, autentico e non affettato: «La mia fondazione», ha iniziato a dire a un certo punto del suo intervento al dibattito, poi si è fermato: «O meglio, la fondazione per cui attualmente lavoro», s’è schermito subito.

Giovanni Azzone, al ccentro, con Mara de Monte, a sinistra, e Marta Lazarowicz, a destra

Fra innovazione e impatto

Un confronto vero come anche l’intervento di Alberto Sangiovanni-Vincentelli, professore di ingegneria e scienze computazionali a Berkeley per 45 anni, ha dimostrato. In un inglese fluente ma piacevolmente ancora accentato italiano, malgrado i più anni trascorsi negli States che nella sua Milano, ha ricordato, tra le molte cose, come la legge dell’innovazione sia la velocità: «Go fast», ha scandito. Un appello che fa un certo effetto in un consesso che deve necessariamente parlare, per esempio, anche di capitale paziente, di scalabilità, di fallimenti e della necessità della loro condivisione. Perché le sfide sono tante e complesse.

Della complessità fa certametne parte anche l’impatto. Se ne è parlato in una bella sessione dedicata, dove una delle voci era Alessia Gianoncelli, di Impact Europe (già Evpa), a dimostrazione di come i rapporti fra le due grandi famiglie europee della filantropia siano collaborativi.

Addizionalità, mai senza

Discussant di quella sessione Federico Mento, direttore di Ashoka Italia e editorialista di questo giornale. Brillante come sempre, Mento ha espresso apprezzamento per gli interventi ma è andato diritto verso quello che, a suo dire, è mancato alla discussione: oltre al rapporto col pubblico, anche la necessaria enfasi sull’addizionalità. «Si fa un gran parlare di misurazione dell’investimento a impatto», ha spiegato, «ma l’addizionalità è cruciale. È il valore che si crea che conta». Al coffee break, al cronista l’ha chiarito ulteriormente: «Perché un conto è fare rigenerazione urbana a Milano: si trovano tanti disposti a farla», ha detto, «altro è fare housing sociale a Crotone».

Fondazioni, il valore dell’affidabilità

«Questo settore», sintetizza D’Auria, «è riflessivo e a volte anche molto severo con se stesso. Ha ragione la stessa Parry che, alla fine, ha detto: “Fate molto di più di quello che non crediate”.  Le fondazioni infatti sostengono gli ecosistemi, perché l’innovazione non si pianifica, non si ordina, non si costruisce a tavolino. Ed è emerso il ruolo complesso delle fondazioni che non soltanto erogano fondi, ma sono capaci di mettere insieme diversi attori del territorio e basandosi su una profonda conoscenza, una profonda fiducia, anche perché sono organismi affidabili».

Filantropia, riformismo possibile?

A fine lavori, abbondando i bellissimi spazi di Cariplo Factory e lambendo gli open space modaioli del celebrato co-working Base, i congressisti andavano al Castello Sforzesco, a vedere antichi codici miniati.

Tutti inconsapevoli che, in mezzo a quelle vestigia ex-industriali dell’Ansaldo dove si trovavano, proprio lì a poche decine di metri, s’era consumata anche un po’ di storia politica italiana recente, quella della Prima Repubblica. Sotto le volte della grande fabbrica, si celebrò infatti, nel 1989, un congresso socialista di cui si scrisse molto, anche per una famosa intesa politica nazionale, stretta nel camper, parcheggiato all’interno e che faceva da ufficio mobile al segretario, Bettino Craxi.

Aldilà degli eccessi “pansechiani” – l’architetto Filippo Panseca che curava le scenografie un po’ trash di quel convegno – e dei rovesci giudiziari, fu un tentativo politico di segno riformista. Oggi, mentre la politica mondiale sembra incapace di riformarsi e di fare riforme, tanto da riscoprire la guerra, chissà che l’unico vero riformismo – quello delle cose cambiate giorno per giorno, un pezzo alla volta, dal basso – lo possa realizzare la filantropia.

Nei prossimi giori, pubblicheremo un episodio speciale di VitaPodcast dedicato all’evento. Le foto di questo servizio sono dell’autore per VITA.


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