Adozioni

Se la ricerca delle origini diventa uno show

Le Iene hanno mandato in onda l'appello di due genitori che, dopo più di vent'anni, cercano i loro due figli andati in adozione. La ricerca delle origini può essere un fai-da-te? E soprattutto, possono essere i genitori ad avviarla? Le riflessioni di quattro esperti

di Sara De Carli

Vecchia foto di bambini davanti a una casa con le finestre sbarrate. Suggerisce idea di adozione e ricerca origini

I nomi, le date di nascita, il quartiere in cui hanno vissuto i primi anni della loro vita, le foto dell’album di famiglia. E poi l’appello: se vi siete riconosciuti, contattate la redazione delle Iene. Termina così il servizio mandato in onda nella serata del 27 febbraio: protagonisti Pasquale e Maria Rosaria, che a 22 anni dall’allontanamento dei loro due figli da parte dei servizi sociali si sono rivolti alle Iene per provare a ritrovarli. Insieme a loro, parlano alcune vicine di casa che da anni si prendono cura di due persone semplici e fragili: «È stato doloroso, ma i bambini da qui andavano tolti», ripetono. Adesso però le cose sono diverse, spiegano, Pasquale e Maria Rosaria vorrebbero solo sapere dove sono i loro figli, poterli rivedere anche solo una volta oppure – aggiungono sottovoce – ogni tanto. Le parole dicono della consapevolezza di due figli ormai adulti, con le loro vite. Le telecamere però intanto indugiano su una cameretta incellofanata a vent’anni fa. Torna così il tema della ricerca delle origini: chi la può fare, con quali strumenti, in quale cornice. Torna con un servizio che in una serata qualunque d’inverno entra a gamba tesa nella vita di due giovani uomini, senza filtri, senza permesso, senza paracadute. È questo che vogliamo?

I rischi della disintermediazione

«Per quanto possa essere comprensibile il desiderio dei genitori di origine di incontrare i figli allontanati o abbandonati, non è mai bene che siano loro a fare il primo passo e a mettersi alla ricerca dei figli, men che meno con un programma nazionale. Le uniche legittimate a fare la ricerca sono le persone con background adottivo e ognuna lo farà se e quanto ne avvertirà la necessità, non quando altri lo decideranno», commenta Monya Ferritti, presidente del Coordinamento Care, autrice di Il corpo estraneo e Sangue del mio sangue (qui il post su Facebook). «In questo caso oltretutto uno dei due ragazzi ha più di 25 anni, quindi potrebbe recarsi al tribunale per i minorenni e chiedere l’accesso al proprio fascicolo, come previsto dalla legge. Poiché lui e il fratello sono stati riconosciuti alla nascita, nel fascicolo troverebbero le informazioni che cercano. Quello che non si può accettare è che qualcuno entri in maniera così intrusiva nella vita di ragazzi, giovani adulti o adulti che hanno già avuto il proprio carico di elaborazione. Anche perché se si accetta che la ricerca delle origini possa essere disintermediata, si accetta anche che spesso la conseguenza sarà quella di fare incontrare giovani donne e uomini, senza paracadute e caricati di aspettative e ansie, con delle situazioni complesse e con persone aggravate dalla vita. In questo caso specifico i due genitori di origine, fra l’altro, sono anch’esse vittime di una tv che entra in casa loro con toni paternalistici: ma in generale mi sento di dire che l’ansia di riconnessione i familiari di origine la devono elaborare per conto proprio».

Per quanto sia comprensibile il desiderio dei genitori di origine di incontrare i figli allontanati o abbandonati, non è mai bene che siano loro a fare il primo passo. Le uniche legittimate a fare la ricerca sono le persone con background adottivo

Monya Ferritti

La conclusione di Ferritti? «Serve in Italia un sistema di intermediazione sulle origini. Un servizio istituzionale, gratuito, pubblico e competente a cui chi lo desidera può rivolgersi. Non possiamo lasciare questo percorso così delicato al fai-da-te». In Francia, che ha il parto in anonimato come noi, un servizio del genere esiste già.

Cosa dice la legge

Ma in Italia come si fa ad avviare la ricerca delle proprie origini? La cornice legislativa e i percorsi sono differenti a seconda che il minore sia stato riconosciuto alla nascita e successivamente dichiarato adottabile oppure se si tratta di un parto in anonimato, con il neonato non riconosciuto dalla donna che lo ha partorito. Sul tema ci sono in Parlamento alcune proposte di legge, anche portate avanti dal Comitato Diritto Origini Biologiche ma al momento a fare fede è l’articolo 28 della legge 184/1983, modificata poi dalla legge 149/2001.

La legge prevede che a partire dai 25 anni di età l’adottato possa presentare un interpello al Tribunale dei minorenni del luogo di residenza per chiedere di avere accesso alle informazioni sulle sue origini (la richiesta può essere presentata anche prima dei 25 anni dall’adottato maggiorenne o dalla famiglia adottiva, ma solo in presenza di gravi e comprovati motivi attinenti alla salute psicofisica). A quel punto il Tribunale avvia un’istruttoria (non si tratta cioè di una procedura automatica) per raccogliere tutte le informazioni, anche di carattere sociale e psicologico, necessarie per valutare che l’invocata comunicazione delle notizie non comporti grave turbamento al richiedente, ma quasi sempre la richiesta viene accolta. Completamente diversa invece la situazione di chi non è stato riconosciuto alla nascita e risulta “nato da donna che non consente di essere nominata”: si tratta del parto in anonimato, una misura che garantisce il parto in sicurezza per madre e neonato e che assicura alla donna che la sua identità rimarrà segreta per 100 anni. A partire dal 2013 tuttavia, benché la legge sia rimasta la stessa, la giurisprudenza ha smussato questo divieto: la Corte Costituzionale infatti con sentenza n. 278 del 2013 ha sancito l’illegittimità costituzionale della norma dettata dall’art. 28, c.7 della legge 184/1983, nella parte in cui non consente al Giudice di interpellare la madre biologica per verificare se intenda revocare la dichiarazione di anonimato precedentemente resa.

Chi volesse provare ad avere informazioni sulla propria madre biologica, oggi può fare un interpello al Tribunale per i minori, che proverà a rintracciare la donna e verificherà con lei se intende ancora mantenere l’anonimato o se – sapendo che il figlio la sta cercando – vuole svelare la sua identità. Qualche tribunale lo fa tramite i servizi sociali, altri tramite gli uffici anagrafe, altri tramite la polizia giudiziaria. Se invece la donna è già deceduta, il suo nome viene sempre comunicato al ricorrente. «Nel momento in cui la donna accetta di togliere l’anonimato, il ricorrente viene invitato a prendere contatto con i servizi sociali per effettuare un avvicinamento accompagnato e mediato. Viene dato un nome, non un indirizzo e non vengono trasferiti i dettagli contenuti nel fascicolo: su quello saranno le persone coinvolte a decidere cosa e come rivelare», spiega Raffaella Pregliasco, ricercatrice dell’Istituto degli Innocenti di Firenze.

Firenze, il servizio SerIO

Proprio all’Istituto degli Innocenti nel 2017 è nato SerIO, un servizio per le informazioni sulle origini promosso dalla Regione Toscana e dall’Istituto stesso. È tuttora pressoché unico in Italia. «Si tratta di un servizio di informazione e orientamento, non siamo noi a svolgere l’istruttoria né a comunicare i dati identificativi ai ricorrenti, quello resta un compito del Tribunale per i minori. Accompagniamo le persone affinché abbiano maggiore consapevolezza del percorso che stanno avviando ma anche gli operatori sociosanitari che lavorano in questo ambito», dice Pregliasco.

Il punto da sottolineare è che per la legge italiana, comunque, il diritto è sempre quello del minore (diventato adulto) ad avere accesso alle proprie origini, mai dell’adulto a tornare sui propri passi. «Il presupposto dell’allontanamento e dell’adozione è sempre una situazione di pregiudizio per il bambino. Va tutelato quindi l’equilibrio che il minore – anche diventato adulto – ha ricostruito nonostante l’iniziale situazione di pregiudizio. Proprio per questo è corretto che la ricerca del contatto possa partire solo dal figlio: alcuni arrivano a 25 anni, altri molti anni dopo, alcuni sperano di incontrare la donna che li ha messi al mondo e altri vogliono solo conoscere la propria storia».

Il presupposto dell’allontanamento e dell’adozione è sempre una situazione di pregiudizio per il bambino. Per questo è corretto che la ricerca del contatto possa partire solo dal figlio

Raffaella Pregliasco

Al SerIO in questi anni si sono rivolte anche mamme biologiche alla ricerca dei propri figli: «Accogliamo il loro bisogno provando a far comprendere le ragioni per cui non è possibile accogliere la loro richiesta». C’è anche da dire che la realtà spesso travalica la legge e il desiderabile: attraverso i social le ricerche non mediate e non tutelate sono ormai frequentissime. «In questo vedo grossi rischi perché l’età dei ragazzi contattati spesso è drasticamente più bassa, anche adolescenti. In queste “richieste di contatto” vengono raccontate verità che non sempre corrispondono al vero: è normale che il genitore biologico abbia la propria storia e la propria versione di come sono andate le cose. Però è rischioso, perché queste narrazioni possono essere molto impattanti».


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I numeri

Non esistono numeri aggiornati di quanti figli avviino una ricerca delle proprie origini. Gli ultimi dati disponibili sono contenuti nella quinta relazione sull’attuazione della legge 149/2001 pubblicata a inizio 2022. Nel 2019 sono state presentate 369 domande di accesso alle origini dinanzi ai Tribunali (non viene fatta una distizione tra istanze presentate da persone nate da genitori noti e non noti), che ne hanno accolte 229, respinte 52 e archiviate 61. Il numero globale di domande pendenti a livello nazionale all’epoca della rilevazione era di 535. Ognuno dei 29 Tribunali interpellati ha ricevuto richieste di accesso alle informazioni sui genitori biologici.

Al 52% dei Tribunali (15 su 29) sono pervenute anche domande di informazioni circa i fratelli/sorelle biologici. La prassi più diffusa, è quella per cui i ricorrenti prendono visione diretta degli atti inseriti nel fascicolo processuale, insieme a un giudice onorario (nel 41% dei Tribunali) o liberamente (nel 17% dei Tribunali). Meno frequente si presenta il ricorso al modello di comunicazione mediata delle informazioni, trasmesse in udienza camerale (nel 31% dei Tribunali), oppure per iscritto, con decreto notificato al destinatario (dal 17% dei Tribunali). «Rispetto alle domande che fanno capo al Tribunale per i minorenni di Torino, sappiamo che il 90% delle donne contattate per verificare se desiderano rimuovere l’anonimato, ha detto di no», commenta Frida Tonizzo, presidente di Anfaa.


Non la ricerca dell’altro, ma la ricerca di sé

Francesco Vadilonga, psicologo e psicoterapeuta, dirige il CTA – Centro di Terapia dell’Adolescenza. Anche il CTA ha un servizio dedicato ai figli adottivi alla ricerca delle origini, si chiama “Faro”. Per Vadilonga il servizio delle Iene è solo «la punta di un iceberg». In questo momento, spiega, «sul tema, siamo in un momento di passaggio. Accadrà la stesa cosa che è accaduta per l’adozione decenni fa: un fenomeno inizialmente fatto di fai-da-te e spontaneismo è stato man mano normato. Sulla ricerca delle origini oggi effettivamente si sente di tutto: serve una legge ma soprattutto servono delle prassi operative condivise. Il fatto stesso di aver creato un servizio dice quanto riteniamo importante che questa ricerca sia accompagnata e lo sia sul piano giuridico, psicologico e sociale. Se la ricerca non è fatta in maniera mentalizzata, possono crearsi situazioni difficili da gestire. Di certo però è un bisogno che esiste e a cui va dato ascolto, più di quanto sia stato fatto finora. È un tema che va sdoganato. Finora per esempio molti adottati si sono messi in ricerca dopo la morte dei genitori adottivi, perché vivevano un forte conflitto di lealtà. Certamente l’ideale sarebbe che la ricerca partisse dai figli, ma dobbiamo attrezzarci anche per il fatto che pure i genitori cercano. La realtà è che è finito il tempo in cui la ricerca delle origini veniva fatta tra polverosi archivi: oggi ci sono i social network e le banche genetiche, dobbiamo prenderne atto», dice.

L’ideale sarebbe che la ricerca partisse dai figli, ma dobbiamo attrezzarci anche per il fatto che pure i genitori cercano. È finito il tempo in cui la ricerca delle origini veniva fatta tra polverosi archivi: oggi ci sono i social network e le banche genetiche, dobbiamo prenderne atto

Francesco Vadilonga

E non sempre – sottolinea Vadilonga – la ricerca delle origini coincide la ricerca di una persona: «Spesso è la ricerca di una parte di sé. Per alcune persone è qualcosa di terapeutico, perché dà la possibilità di ritrovare una parte di sé e di superare quella dissociazione con la parte complicata e dolorosa della propria storia che si è messa in atto come forma di difesa. È vero, spesso la ricerca delle origini porta a re-incontrare persone fragili e compromesse e a fare i conti con storie complicate: ma il male minore qual è? Il permanere della dissociazione o il provare, accompagnati, a integrare quella parte di sé?».

La voce degli adottati adulti

Alessandra Pritie Maria Barzaghi, figlia adottiva adulta, è stata una delle prime bambine arrivate in Italia con l’adozione internazionale, nel 1969. Ha un figlio naturale e una figlia adottata dal suo stesso paese d’origine, l’India. È autrice del libro Le verità dei figli adottivi. La sua posizione è differente: «Come figlia devo dire che se la mia mamma naturale mi cercasse, mi farebbe piacere. Può essere bello sapere che queste persone ti hanno pensato per tanti anni. Al contrario, nel gruppo legato a Punto Adozione ci sono alcune persone che hanno presentato istanza e le madri hanno negato di voler revocare l’anonimato, per loro è stato pesante».

Da figlia dico che se la mia mamma naturale mi cercasse, mi farebbe piacere. Vorrei che si smettesse di considerarci come individui incapaci di affrontare la nostra storia passata senza l’accompagnamento di un esperto. È una visione paternalista

Alessandra Pritie Maria Barzaghi

Barzaghi auspica che «finalmente si smetta di considerarci come individui incapaci di affrontare la nostra storia passata e il momento emozionante della conoscenza delle nostre origini, senza l’accompagnamento di un esperto. È una visione paternalista. Il primo viaggio nel paese di origine, per esempio, per me va fatto da solo in modo da avere la libertà di vivere le proprie emozioni senza avere la preoccupazione di ferire i genitori adottivi, di sentirsi responsabili di come si sentiranno loro o senza l’esperto che ti condizioni. Quando si parla di ricerca delle origini e di genitori biologici, invece, i genitori adottivi ancora spesso si allarmano, come se ci fosse una competizione o una contrapposizione tra genitori biologici e genitori adottivi e in fondo in fondo la paura di perdere i propri figli. Ma da figlia assicuro che questo rischio non c’è perché siamo perfettamente in grado di gestire l’idea di avere quattro genitori e di distinguere senza fare confusione tra chi ci ha messi al mondo e chi ci ha cresciuto e amato».

Foto di Anita Jankovic su Unsplash

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