Mondo

Chi era. Viaggio a Borama. Lei, faccia a faccia con l’iman

"Mi hai ucciso con le tue parole", gli disse. Ma poi riuscì a farselo amico (di Anna Pozzi).

di Redazione

Aveva uno sguardo intenso e mobilissimo, Annalena Tonelli, di quelli che noti subito e non dimentichi più. Mi aveva colpito quando la incontrai per la prima volta sulla porta del Tbc centre di Borama: quegli occhi azzurri e luminosi, due fari nel suo viso segnato da una vita vissuta per gli altri. Era un amore vero quello che Annalena dedicava ai ?suoi? somali. Nulla di ostentato, ma qualcosa di fedele e paziente, che traspariva nei gesti, nei sorrisi, nel sottile umorismo. Eppure passione grandissima, sbocciata in giovinezza e coltivata per tutta una vita. Annalena Tonelli è una di quelle persone che incontri per lavoro e ti segnano la vita. Ero andata lì per un reportage per Mondo e missione. Anzi, a dire il vero in quella cittadina sperduta del Somaliland al confine con l?Etiopia non è che ci volessi proprio andare. L?obiettivo era Mogadiscio. A Borama, al massimo ci avrei fatto un salto. E invece la guerra, che continua a imperversare in Somalia, mi ha chiuso le porte della capitale. Annalena, invece, me le ha aperte. Mi ha tenuta con sé per quasi una settimana, permettendomi di condividere le sue giornate intensissime e le sue cene frugali, facendomi incontrare i suoi collaboratori e i suoi amici, mettendo una buona parola affinché incontrassi anche il presidente Dahir Rayale Kahin. Molti amavano e stimavano Annalena a Borama, ma c?era anche chi non poteva sopportare il prestigio e l?influenza della straniera, che veniva accusata di aver portato la tubercolosi e l?Aids e di nascondere i nemici in ospedale. Accuse pretestuose di fondamentalisti islamici o di retrogradi tradizionalisti. Le stesse, probabilmente, che hanno armato la mano dei suoi assassini. Annalena non dava troppo peso alle minacce che riceveva. Aveva alle spalle un?esperienza di oltre trent?anni di Somalia. Aveva vissuto gli anni più bui della caduta di Siad Barre a Mogadiscio, nel 1991. “Erano giorni drammatici”, raccontava Annalena che, dopo la partenza forzata di tutti gli stranieri, era tra i pochi rimasti nella capitale somala in preda alle bande armate, “Mogadiscio era solo morte e distruzione. Camminavo per le strade sfidando la morte pur di non abbandonare la mia gente”. A Borama, dove era arrivata nel 96, sembrava che la situazione fosse più tranquilla. Qui era riuscita a fare un enorme lavoro, trasformando il piccolo ospedale coloniale nel miglior centro antitubercolare di tutta la Somalia. Anche qui, però, le tensioni erano evidenti. E dopo l?11 settembre, e soprattutto dopo l?attacco americano all?Afghanistan, sono cresciute, in particolare negli ambienti del fondamentalismo islamico. Qualche tempo prima del mio arrivo, raccontava Annalena, aveva dovuto fronteggiare un imam che non smetteva di predicare contro di lei nella moschea, incitando la gente uccidere l??infedele?. “Un giorno”, mi disse, “l?ho incontrato e gli ho detto che lui mi aveva già uccisa con le sue parole, mettendomi la popolazione contro. Ha capito che non ero lì per fare proselitismo, che volevo solo fare del bene alla sua gente dopodiché, insieme ad altri leader musulmani, è diventato un mio sostenitore. Il suo fondamentalismo, come quello di altre persone, non ha radici religiose profonde, è solo frutto dell?ignoranza. Che talvolta, però, può anche uccidere”.

Anna Pozzi


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