Famiglia

Piccoli affari sporchi: un po’ troppo da favola

Recensione del film "Piccoli affari sporchi" di Stephen Frears.

di Giuseppe Frangi

“Non vi ho mai visto prima. Chi siete?”. “Noi siamo quelli che non si vedono”. Questo dialogo, quasi in chiusura di film dice tutto della storia di amore e disperazione che Stephen Frears ha raccontato dai bassifondi di Londra. Protagonisti di Piccoli affari sporchi sono due clandestini: lui medico nigeriano scappato dal suo Paese perché perseguitato; lei turca, scappata in Occidente con il sogno di arrivare tra i cavalli bianchi che fanno la ronda al Central Park di New York. Due cuori puri, costretti a convivere nel fango della più terrificante impurità: s?incontrano infatti lavorando, da clandestini, in un grande albergo londinese, le cui stanze di notte si trasformano in sale operatorie. I clandestini, per un passaporto, accettano qui di vendere i loro reni. Lui, medico a Lagos, guardiano di notte a Londra, c?impiega poco a capire cosa accade dietro le quinte. Ma non può fare nulla, perché è appunto “uno di quelli che non si vedono”. Un ?nessuno? non può denunciare nessuno. Ma alla fine, per una volta, l?impeto della purezza ha la meglio. Con un finale improbabile e rocambolesco, la storia si rovescia. I buoni consumano il più perfetto contrappasso contro l?odioso organizzatore del traffico. Con un dubbio: questa è realtà o solo una favola?


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