Famiglia

Una nuova strategia dagli Usa. Alzheimer, se smettessimo di nasconderlo?

Alleanza medico-paziente, dire al malato che cos’ha e cosa l’aspetta. I test infatti hanno rivelato a sorpresa che il morbo inganna (di Carmen Morrone).

di Redazione

Sono più di mezzo milione i malati di Alzheimer in Italia e quasi 20 milioni nel mondo. La malattia delle quattro A (amnesia, afasia, agnostia, aprassia) ha una diagnosi difficile,che poi però non viene comunicata al paziente. La Federazione Alzheimer Italia, che raccoglie una cinquantina di associazioni, non ci sta e vuole che si affermi il diritto alla diagnosi . “Ai malati non viene detto di essere affetti dalla Sindrome di Alzheimer. Vengono informati normalmente solo i familiari, ma ciò non è giusto. Il malato ha diritto di sapere, in qualsiasi fase della malattia, per quanto sia possibile, perché ha diritto a decidere della propria vita. Nei momenti di lucidità i malati possono così scegliere come e dove intendono essere curati”, dice Gabriella Salvini Porro, fondatrice della Federazione. I medici si difendono sostenendo l?incapacità del paziente a comprendere. Ma non tutti. Il professor Antonio Guaita, uno dei maggiori esperti della sindrome di Alzheimer, è di altro avviso. “In questi anni abbiamo condotto una ricerca che ha dato dei risultati sorprendenti”, dice. “I dati rivelano che non sempre la gravità della malattia corrisponde a una mancanza di consapevolezza. Noi medici veniamo ingannati ad esempio dall?apatia del soggetto, per questo stiamo mettendo a punto dei test per avere delle indicazioni oggettive. In ogni caso c?è chi vuole conoscere la diagnosi e lo chiede espressamente ma c?è anche chi preferisce non sapere, e va rispettato”. Il 63% dei familiari, secondo un? indagine a livello europeo condotta nel 2002 da Alzheimer Europe, ritiene utile la comunicazione della diagnosi al parente. “Lo studio ha rivelato che la conoscenza della diagnosi è sentita come un vero e proprio diritto della persona che vuole continuare a partecipare in maniera attiva alla propria vita”, considera Gabriella Salvini Porro. “Con questo ribadiamo anche la necessità che le diagnosi siano precoci e che quindi si possa coinvolgere il malato. Tra i primi segnali e la diagnosi trascorre anche più di un anno, per sottovalutazione dei sintomi e per scarsità di centri specializzati”. Ma quali vantaggi ci sono nel dirlo ai malati? “Intanto vengono a sapere di essere malati e quindi si autoassolvono dai sensi di colpa. Queste persone infatti sono disorientate dal loro stesso comportamento, quando improvvisamente perdono la memoria e l?orientamento; sapere che si è affetti da una malattia significa dare un senso al loro nuovo modo di vivere”, fa sapere il professor Guaita. L?Alzheimer colpisce dai 40 anni in su, per cause ancora sconosciute, e provoca una continua degenerazione delle cellule cerebrali, sino alla perdita di autonomia. Può durare anche vent?anni sino a che il corpo sfinito diventa estremamente vulnerabile alle malattie. Le 502 Unità di Valutazione Alzheimer sono le prime strutture cui deve rivolgersi chi ha anche il minimo sospetto. Create all?interno del progetto ministeriale Cronos partito nel 2000 e voluto dalla Federazione Alzheimer Italia, le Uva si trovano presso Asl e ospedali in cui medici specializzati fanno diagnosi e prescrivono terapie. E dopo? “Dopo il malato è lasciato a se stesso. Essendo una persona ?sana? continua a vivere in famiglia. Ma mancano i servizi che offrono assistenza, che facciano sentire meno soli i familiari durante l?evoluzione del morbo”, considera Gabriella Salvini Porro. “Alcune Unità Alzheimer continuano a seguire il malato, ma sono iniziative spontanee, manca una vera e propria rete di servizi per l?assistenza domiciliare e per i centri diurni”. Da qualche anno sono nate strutture che offrono la possibilità di ricoveri temporanei, che danno sollievo alle famiglie e coinvolgono il malato in un percorso riabilitativo innovativo. L?Italian Hospital Group di Guidonia ne è un esempio, come pure l?istituto Golgi di Abbiategrasso. Bando agli orari e massima attenzione verso la persona caratterizzano il metodo Gentlecare della terapista canadese Moira Jones applicato all?istituto di Abbiategrasso. Qui vengono ricoverati pazienti, in convenzione con il sistema sanitario nazionale, che convivono già da anni con la malattia. “Il nostro obiettivo non sono le prestazioni , vale a dire far ricordare loro l?ora o il giorno della settimana, ma è il benessere che è assenza di stress. La persona, perdendo ogni riferimento spazio-temporale, vive a disagio perché i suoi comportamenti sono inusuali”, spiega Antonio Guaita, che dirige questa struttura. “Se una persona si alza di notte convinta che sia mattina, noi gli prepariamo latte e caffè e capita che dopo torni a dormire tranquilla”. C?è poi la questione della considerazione sociale dei malati. Negli Usa chi è ancora in forma, non si fa rappresentare dai familiari. Sono loro a parlare delle proprie storie a convegni medici e incontri con i cittadini. In Italia, invece, il malato di Alzheimer tende a nascondersi, e a essere nascosto, frenato dalla propria imprevedibilità. Perché si teme l?incomprensione da parte degli altri.

Carmen Morrone


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