Cosa è la vita? «È un dono che non saprei definire in termini di grandezza. È una cosa straordinaria che ha sempre un senso». A rispondere è Andrea Guarnieri, fratello maggiore di Alessandro, scomparso lo scorso 27 gennaio a Padova, dopo aver vissuto 37 anni in stato di minima coscienza.
Era il 15 settembre del 1987, Alessandro esce di casa per fare un giro in moto. Pochi metri e a un incrocio l’impatto fatale con un camion militare che non rispetta lo stop. La corsa in ospedale. La prognosi di 72 ore di vita. Alessandro resiste, trascorre un mese ricoverato tra interventi e cure. Quando viene dimesso la famiglia decide di portarlo all’ospedale di Innsbruck per traumatizzati cranici per provare nuove terapie.
Non abbiamo mai sentito di vivere con un figlio o un fratello che era solo corpo. Ma con un Alessandro diverso da quello dei 17 anni ma comunque presente
«Siamo partiti tutti per Innsbruck», racconta Andrea, «io e mia madre Marialisa in ambulanza con Alessandro, mio padre Giampaolo e mio fratello Stefano in auto. Dopo pochi giorni loro due sono dovuti rientrare a Padova. Io sono rimasto quasi quattro mesi con mia madre. È stato lì che l’ho vista piangere per la prima volta. Avevo vent’anni. Ero convinto, come tutti i ragazzi di quell’età, che i genitori devono risolvere tutto. Invece, in quell’ospedale austriaco, ho capito che dovevo crescere e sostenere mia madre nelle scelte che in ogni momento bisognava prendere per il futuro di mio fratello. In quegli anni non c’erano cellulari. Non potevamo mandare un messaggio whatsapp per chiedere il parere di mio padre e di mio fratello Stefano. Dovevamo decidere tutto noi due e anche velocemente».
Mamma Marialisa fin dal primo giorno si è informata, documentata e ha cercato soluzioni alternative per Alessandro che negli anni è stato curato non solo in Austria e in Italia ma, anche, in Polonia.
«Fino a quel settembre vivevamo una vita normale», prosegue, «papà lavorava e mamma si occupava di noi tre figli ormai adolescenti. Dopo l’incidente credo di non sbagliare se dico che mia madre ha indossato il pudore del dolore. Non voleva far pesare su di noi il suo stato d’animo e la preoccupazione che c’era. Voleva fossimo liberi di scegliere le nostre vite: studiare, sposarci e diventare genitori. All’epoca dell’incidente mamma aveva 47 anni. Nonostante l’enorme dolore, ha sempre mantenuto il suo animo gentile verso tutto. Era pronta a sostenere chiunque ne avesse bisogno. La dignità e la nobiltà con cui ha vissuto il dolore erano frutto del suo animo buono».
Al mattino mamma Marialisa faceva colazione con Alessandro, poi lo vestiva e iniziavano giornate all’apparenza tutte uguali ma fatte anche di gite al mare, in montagna e amici che trascorrevano ore a parlare, raccontare e stimolare le capacità cognitive del ragazzo.
«Mio fratello è stato sempre circondato da persone che gli volevano bene», ricorda Andrea, «la neuropsichiatra Cecilia Morosini, che lo ha avuto in cura, aveva studiato per lui un programma riabilitativo che prevedeva la presenza anche di cinque persone al giorno intorno a lui. Avevamo infermieri, badanti e volontari che passavano tanto tempo con Alessandro. Ma, anche, amici che venivano a trovarlo. Per esempio ricordo un mio compagno universitario che è venuto a salutarci quando era sposato e aveva già quattro figli, dopo quel primo incontro è diventato papà altre sei volte e ogni volta veniva a far conosce il nuovo arrivato a mio fratello. Oppure l’infermiera Barbara che lo ha assistito 11 anni: poi ha iniziato a lavorare all’ospedale, ma per me e Stefano è ancora oggi come una sorella»
Alessandro parlava con gli occhi. Sorrideva a tutti dimostrando di percepire cosa gli accadeva intorno. Per tutti coloro che lo hanno conosciuto, lui è stato come il segno tangibile della precarietà della vita. Di come tutte le certezze che abbiamo possono dissolversi in un attimo. Il fatto che attraverso gli occhi e il sorriso quel corpo immobile comunicava, metteva tutti di fronte alla consapevolezza che la vita è come un soffio prezioso.
«Come ci spiegava la professoressa Morosini», racconta Andrea, «questi pazienti hanno un loro dialogo interiore fatto di pensieri, emozioni e sentimenti. Lei ci invitava a mettere Alessandro di fronte allo specchio per vedere la sua reazione. Il suo sguardo cambiava, da sorridente diventava di fuga. Capiva. In tutti questi anni noi non abbiamo mai sentito di vivere con un figlio o un fratello che era solo corpo. Ma con un Alessandro diverso da quello dei 17 anni ma comunque presente, che si emozionava a modo suo tenendo in braccio i nipoti, che rideva alle mie battute e che quando, a gennaio del 2023 mamma è mancata, ascoltando le mie parole ha capito cosa era accaduto».
Per ragioni ancora non note, dal buco dello stato di minima coscienza ci sono pazienti che sono usciti e per questo la famiglia Guarnieri non si è mai arresta.
«Ogni volta che ci relazionavamo ad Alessandro», spiega il fratello, «cercavamo di stimolarlo leggendo per lui, parlandogli e coinvolgendolo nella vita quotidiana dai pranzi di Natale e Pasqua, ai compleanni fino alle gite fuori città. Alessandro era sempre con noi. Abbiamo sperato che potesse risvegliarsi fino al 2014 quando, purtroppo, il suo fisico ha iniziato a cedere».
In questi anni Andrea si è sentito spesso chiedere se l’idea di porre fine alla vita di suo fratello è stata mai presa in considerazione. La risposta è sempre stata negativa.
«Alessandro non ci ha mai dato mandato per farlo», spiega Andrea, «lui a modo suo partecipava alla vita. Con il tempo il suo essere diverso è diventato normale all’interno della nostra famiglia. Peraltro io, mio fratello e i miei genitori lo conoscevamo prima dell’incidente ma le nostre mogli, i nostri figli e molti amici lo hanno conosciuto così e hanno imparato a dialogare con lui con i sorrisi. Per tutti questi anni ci siamo sentiti il corpo in movimento di Alessandro. Noi davamo forma ai suoi pensieri, ai suoi desideri e alle sue emozioni di cui abbiamo sempre percepito l’esistenza».
Si ferma un attimo Andrea Guarnieri. Il suo parlare calmo, posato e pieno di pause di silenzio, si fa improvvisamente deciso e dice: «Per fare tutto questo sono necessarie risorse economiche che noi per fortuna abbiamo avuto. Le assistenti domiciliari, gli infermieri, i fisioterapisti e le visite specialistiche li abbiamo pagati noi. Il Servizio sanitario credo ci abbia fornito al massimo un’ora a settimana di fisioterapia».
Fa una pausa e conclude: «Quando mi chiedono se abbiamo mai pensato di interrompere la vita di mio fratello, la risposta è “No”. Ma mi interrogo sul diritto a suicidarsi, che è sacrosanto per chi può scegliere. Ma non deve essere una scelta figlia dello scarto. Voglio dire che se ti ritrovi solo, bloccato nel tuo corpo e ti senti un fardello per le persone che ti assistono, mi chiedo se non sei costretto a scegliere di ucciderti per non pesare sugli altri. Oppure se sei solo ad assistere una persona nella situazione di Alessandro, non hai risorse economiche per farlo vivere dignitosamente in casa, posso comprendere che puoi essere spinto a scegliere il fine vita. Ma possiamo davvero considerare questa una scelta libera? Io credo che come società dovremmo prima dare la possibilità a tutti i malati di essere assistiti in tutti i loro bisogni, non badando a spese, e poi discutere di fine vita e di suicidio assistito. Il nostro non è stato un accanimento, ma un vivere con un Alessandro diverso da come lo avevamo conosciuto per 17 anni».
In apertura Alessandro e Andrea (foto famiglia Guarnieri)
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