Ambiente
Crisi idrica, il catastrofismo produce soluzioni sbagliate
Dalla Catalogna alla Sardegna: le crisi dell'acqua e del clima si intrecciano in una nuova normalità. Per il geografo Filippo Menga, che da anni si concentra sullo studio della distribuzione delle risorse nel mondo, è il momento di prenderne coscienza. Dobbiamo abbandonare la paura e i toni sensazionalistici, per affrontare i problemi in modo equilibrato, senza illusioni e, soprattutto, senza cedere alla rassegnazione
La Catalogna sta vivendo in queste settimane una siccità senza precedenti. Il governo ha decretato l’emergenza il 1° febbraio, annunciando limitazioni nei consumi per 6 milioni di residenti nell’area metropolitana di Barcellona e Girona. Anche in Sardegna il livello degli invasi è tra i più bassi degli ultimi venticinque anni e ci si prepara al razionamento dell’acqua. Per Filippo Menga, professore associato di geografia all’Università di Bergamo, i toni allarmistici con cui si racconta la crisi idrica, così come quella climatica, non aiutano ad affrontare i problemi. Prima di rientrare in Italia, Menga ha lavorato, tra le altre, all’Università di Reading e di Manchester in Gran Bretagna, dove è stato insignito del premio Scopus-Fulbright come miglior giovane ricercatore nel campo delle scienze sociali nel 2018. Ad aprile uscirà il saggio: Sete, per Ponte alle Grazie.
Professore, come dovrebbe cambiare il nostro rapporto con la risorsa acqua, nel contesto della crisi climatica?
La crisi idrica, che ora inizia a farsi sentire in modo potente anche in Europa, esiste da decenni in altre parti del mondo. Nel 2018, a Città del Capo c’era il terrore del giorno zero, in cui sarebbe finita l’acqua a disposizione per tutti. Eppure la popolazione delle bidonville, che non sono servite dalla rete idrica, conosceva già il problema. La novità era che la crisi colpiva anche le classi borghesi o alte. Allora sì, è diventata grave per tutti. Credo che questo esempio possa servire a comprendere quello che sta succedendo oggi nel nostro mondo. Improvvisamente riconosciamo, come dice lo scrittore Amitav Ghosh, usando il termine “agnizione”, qualcosa che sapevamo, ma pensavamo non sarebbe mai successo proprio a noi.
Ci spieghi meglio come funziona questo meccanismo di negazione…
Nel libro La grande cecità, Ghosh narra come una persona, trovandosi dentro a un tornado, riconosce per la prima volta qualcosa che sapeva da sempre: siamo impotenti di fronte alla natura, quando si manifesta in tutta la sua forza. È qualcosa che sappiamo, ma rifiutiamo di affrontare. Per questo, secondo lo scrittore indiano, non siamo capaci di raccontare la crisi climatica se non con toni catastrofisti. Film e serie tv dipingono un futuro distopico, disegnando una sorta di “ecologia della paura”, come la definì lo scrittore americano Mike Davis. Secondo me, il punto è che abbiamo l’illusione della fine, di seguire un percorso lineare, il che non ci permette di focalizzarci sul presente.
E allora, tornando alla crisi idrica, come dovremmo affrontarla?
L’errore più grande è pensare di risolverla solo con ulteriori soluzioni tecniche, come impianti di dissalazione, nuovi invasi ancora più grandi. Queste strade portano al fallimento. Per individuare una conclusione costruttiva, il primo passo è riconoscere questa grandissima crisi, prepararci, comprendere che è strutturale, viene da lontano e deriva dal nostro rapporto distorto con la natura. Non è un’emergenza passeggera. Il modo più generativo per rispondere è smettere di avere paura, smettere di vivere in uno stato di emergenza continua, di sviluppare soluzioni eccezionali.
Il riscaldamento del pianeta dovuto all’uso di combustibili fossili e alla conseguente immissione di gas serra in atmosfera, però, è una novità nella storia dell’umanità…
Certo. La crisi climatica ci pone sfide nuove. Ma, più aumentano i rischi, maggiore è la tendenza a negarli, forse come forma di autodifesa di fronte a un problema troppo grande, come se non pensandoci scomparisse. Accade anche per altre questioni ambientali, per esempio l’inquinamento da microplastiche. Sappiamo che si trovano ormai nella placenta, nel sangue, nelle prime feci dei bambini, in tutti i nostri organi, eppure non è uno scandalo, non suscita quasi reazioni se non articoli di stampa o servizi tv.
Ma cosa significa, esattamente, prendere coscienza del problema?
L’umanità è ancora in una fase di riconoscimento del cambiamento climatico. Siamo impreparati. Lo neghiamo fino al momento in cui arriva alla porta di casa, quando ci colpisce in modo diretto. Ma a quel punto, di fronte alla sua gravità, ci sentiamo paralizzati, perché come individui possiamo fare ben poco. Non abbiamo ancora capito come gestire la consapevolezza della crisi. Un grande pensatore come il sociologo e antropologo francese Bruno Latour, scomparso nel 2022, sosteneva che ci stiamo avviando a vivere una fase “postclimatica”. Un po’ come, dopo l’illusione della modernità, siamo passati a una fase critica, postmoderna, in cui non crediamo più nelle promesse dello sviluppo. Il giorno in cui prenderemo atto che la crisi climatica non è qualcosa di emergenziale, ma è la nuova normalità, arriveremo in quella fase post, in cui capiremo che le mega-soluzioni non sono quelle che ci salveranno.
Come fare però a evitare di rassegnarsi?
Si sta diffondendo in effetti un atteggiamento di menefreghismo. Penso che la soluzione sia trovare un modo di dialogare diverso, abbandonare i toni sensazionalistici e abituarsi alla nuova normalità, cercare risposte di lungo termine, evitando promesse impossibili e la retorica intergenerazionale, per cui dovremmo lasciare un pianeta migliore ai nostri figli. Dovremmo capire che tutto è collegato, e che un problema che sembra essere soltanto locale – come ad esempio la siccità in Catalogna o in Sardegna – è in realtà l’esito di numerosi fenomeni globali, e viceversa. Anche di acqua, come di clima, si parla spesso con toni allarmistici. Sono temi sempre caldissimi, che interessano tutti in modo diretto e vanno perciò affrontati con equilibrio.
La foto in apertura, di Edmar Barros per Ap Photo/LaPresse, mostra gli effetti della siccità in Amazzonia
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