Welfare regionale

Disabilità, il falso dilemma tra fondi e servizi

Continua a fare discutere la decisione di Regione Lombardia di ridurre di circa 200 euro il contributo per i caregiver di persone con disabilità, per aumentare la rete dei servizi. Una lettrice ci scrive

di Cristina Piacentini

Ho letto su VITA l’articolo Disabilità, la famiglia da sola non basta, scritto da Elisabetta Amiotti, una mamma che è anche presidente di una cooperativa sociale. I servizi sono necessari per i nostri figli e senza dubbio è importante implementarli e crearne di nuovi e funzionanti: comprendo le necessità che esprime questa mamma, che ha una figlia con disabilità ad alta intensità di sostegno. Tuttavia è altrettanto vero che al fianco dei servizi, in modo complementare, servono anche fondi da destinare alla persona con disabilità per metterla nelle condizioni di potersi costruire il progetto di vita che vuole, scegliere in autonomia le persone da cui vuole essere assistita.

Nel dibattito che in queste settimane stiamo vivendo in Lombardia (a seguito della DGR 1669 che taglierà il contributo economico ai caregiver, spostando quelle risorse sui servizi) vorrei sottolineare che ognuno deve essere libero di scegliere se avvalersi di servizi funzionanti oppure di ricevere dei contributi da gestire liberamente o se avvalersi parzialmente di entrambi. Non devono essere tolti fondi da una parte per dare all’altra, ma potenziate entrambe le linee. Mi si dirà che la coperta è troppo corta: allora io rispondo che quello è il compito della politica, trovare altri fondi da destinare alla disabilità.

Il fatto che una persona con disabilità debba essere messa nelle condizioni di potersi costruire il progetto di vita che vuole e di scegliere in autonomia le persone da cui vuole essere assistita è sancito dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, ratificata anche dall’Italia. Pensare il contrario significa limitare l’autodeterminazione delle persone: autodeterminazione che, ovviamente, non tutte le persone con disabilità mettono in pratica allo stesso modo.

Il diritto all’autodeterminazione

Se voglio mettere il vestito rosso lo devo poter mettere, se voglio uscire con un’amica mi si deve mettere in condizione di poterlo fare, se voglio andare a letto alle 4 di notte (come spesso faccio), devo avere la possibilità di farlo. Tutto questo nei servizi residenziali non accade. Ma io non sono una carcerata, ho solo una disabilità motoria grave. Il fatto di essere una persona con disabilità non deve limitare le mie scelte: lo dice anche la legge 67/2006 che tutela contro le discriminazioni. Nell’articolo si dice che «per la maggior parte delle persone con disabilità abbiamo acquisito che la vita indipendente significa avere la possibilità di fare delle scelte di vita quotidiana che rispecchiano le loro preferenze (voglio mangiare la pasta, voglio mettermi il vestito rosso, voglio uscire con la mia amica), sapendo che per fare certe cose bisogna disporre di certi sostegni ma allo stesso tempo anche con la consapevolezza che non tutto ciò che desideriamo, come nella vita di ognuno di noi, può essere realizzato».

Cristina Piacentini

Perché ricordare che nella vita non si può fare sempre ciò che si vuole? Per dire forse che noi persone con disabilità dovremmo rassegnarci a stare in strutture alla mercé delle decisioni di altri? Fare passare questo messaggio è fuorviante e controproducente per le tante persone con disabilità che lottano ogni giorno per avere pari opportunità. Non significa rafforzare e migliorare i servizi, ma instillare nell’opinione pubblica – in particolare in chi non si occupa di disabilità quotidianamente – delle idee che ci farebbero regredire di millenni…


Perché ricordare che nella vita non si può fare sempre ciò che si vuole? Per dire forse che noi persone con disabilità dovremmo rassegnarci a stare in strutture alla mercé delle decisioni di altri?

Per le stesse ragioni non sono d’accordo quando leggo che «se rinunciamo ad avviare un processo deciso di strutturazione dei Leps di cui abbiamo diritto e ci “accontentiamo” di avere solo “più soldi in tasca” avremo perso la battaglia del futuro». Ribadisco che servono servizi potenziati e funzionanti, ma che siano complementari a fondi destinati a chi vuole vivere in un ambiente familiare e sociale, disponendo di figure di sostegno individuate autonomamente. Chi rivendica una prestazione monetaria non è che “non sia orientato al futuro”: soltanto esprime una scelta coerente con il proprio autodeterminarsi e con la propria volontà di realizzare una scelta di vita indipendente in base ai propri bisogni e desideri.

La mia vita normale

Vorrei spendere una parola anche sull’indennità di accompagnamento, attualmente l’unico supporto che ci viene dato che non sia legato all’Isee. Se l’indennità di accompagnamento verrà tolta e inglobata nei servizi si perderà anche questa agevolazione, perché se una persona con disabilità lavora e quindi ha un reddito – come nel mio caso – viene automaticamente esclusa dai servizi. Ma chi lavora paga anche le tasse, che dovrebbero servire per assicurare i servizi: non è giusto che venga poi penalizzata, obbligandola a pagare i servizi di tasca propria. Certamente è giustizia sociale che chi ha di più sostenga di più, ma si cerchi di non indebolire chi ha già tante difficoltà a cui far fronte, perché si sa che a parità di entrate chi ha una disabilità è più povero di chi non ce l’ha! Oggi sono in pensione, ma le mie colleghe, che lavoravano come me e guadagnavano quanto me, con i loro risparmi potevano permettersi degli svaghi, mentre io dovevo pagarmi la badante.

Infine, me lo si lasci dire, mi ferisce il passaggio in cui si afferma che: «Per la mia esperienza non posso negare che la qualità di vita di mia figlia e quella della mia famiglia è veramente cambiata solo quando ho trovato il servizio che ha fornito la risposta più adeguata a quello che oggi definiremmo il suo “progetto di vita”. Un luogo di vita cioè che ha consentito a lei di migliorare la sua condizione esistenziale fornendole tutti gli elevatissimi sostegni di cui aveva bisogno e a me ed alla mia famiglia di vivere una vita normale come fanno tutti, senza venir meno alla mia funzione di madre». Da persona con disabilità sentire un familiare affermare che la sua condizione esistenziale è migliorata perché con il figlio in un servizio può “vivere una vita normale come fanno tutti” mi fa stare male. Perché, la mia “vita normale” forse vale meno?

Ogni tipo di disabilità è diversa e ha esigenze diverse ed è giusto prevedere per ciascuno un progetto di vita personalizzato con obiettivi mirati. È fondamentale non far passare messaggi che potrebbero ledere il diritto alla vita indipendente

In conclusione, ogni tipo di disabilità è diversa e ha esigenze diverse ed è giusto prevedere per ciascuno un progetto di vita personalizzato con obiettivi mirati. Pertanto è fondamentale non far passare messaggi che potrebbero ledere il diritto alla vita indipendente, comunicando l’idea – che poi rischia tanto facilmente di essere recepita dalla collettività – che ciò che un servizio strutturato può mettere a disposizione di una persona con disabilità più di quanto sia di norma realizzabile a casa propria, in famiglia, con l’autogestione del genitore o dei familiari. Noi persone con disabilità non vogliamo essere confinati in strutture, anche se fossero perfettamente funzionanti.

Cristina Piacentini vive a Crema ed è una persona con disabilità impegnata in diverse realtà associative

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