Seconde opportunità
II lavoro in carcere? Lievita la libertà
Un viaggio tra le diverse esperienze in Italia che usano la panificazione per creare occasioni di impiego e riscatto per i detenuti. E la storia di un panettiere di Mantova che ha cambiato la sua vita per guidare un forno in carcere: «sveglia prima dell’alba e senso di responsabilità: mostro loro uno stile di vita, ancor prima che una tecnica. Indico una possibilità, perché è giusto tutti ne abbiano una»
Marcello è entrato in carcere quando sua figlia aveva solo un anno. Ora lei frequenta la scuola elementare, mentre lui ha iniziato ad alzarsi alle prime ore del mattino per infornare il pane che andrà alle mense scolastiche. Finalmente sente che sta facendo qualcosa di buono. Anche per sua figlia. Marcello è chiaramente un nome di fantasia, non lo è la sua storia e il forno nella casa circondariale di Mantova, dove sta scontando la sua pena.
Dove la pena produce pane
La fantasia è senza dubbio uno degli ingredienti comuni alle diverse esperienze che oggi producono lievitati nelle carceri italiane, creando così occasioni di lavoro per i detenuti. Per avere conferma della inattesa creatività che si cela dietro le alte mura di cemento armato dei penitenziari italiani, è sufficiente una rapida carrellata agli originali giochi di parole che danno nome a questi progetti.
Cotti in flagranza è la prima realtà imprenditoriale al Sud nata all’interno di un istituto penale per i minorenni, a Palermo. Invece all’interno della casa circondariale di Siracusa il laboratorio della cooperativa l’Arcolaio sforna prodotti a marchio Dolci evasioni. Lasciando l’isola si arriva a Catanzaro dove lo scorso dicembre è stato inaugurato Dolce lavoro. In Puglia, nella casa circondariale di Trani, dal 2007 la cooperativa Campo dei miracoli produce e confeziona prodotti da forno. Nella casa circondariale di Matera il forno è pronto, completamente allestito, ma da oltre un anno si attende l’allaccio alla rete elettrica. Libere golosità prende vita nel 2019 con la riattivazione del forno situato all’interno della Casa Circondariale di Vicenza.
C’è da stare attenti alla Banda biscotti a Verbania, qui il laboratorio è allestito fuori dalle mura detentive, all’interno della Scuola dell’amministrazione penitenziaria. Oltre al laboratorio di panificazione in carcere, a Rebibbia hanno aperto anche una tavola calda, Cookery, nell’intercinta muraria della terza casa circondariale. A Milano il progetto Buoni dentro ha il laboratorio di panificazione interno all’Ipm Beccaria. A Bergamo c’è Forno al Fresco. Mentre Mondopane gestisce due laboratori, uno all’interno della casa circondariale di Cuneo e l’altro all’interno della casa di reclusione di Fossano. Impossibile non citare la pluripremiata pasticceria Giotto, nel carcere di Padova.
Difficile avere certezza del numero esatto delle produzioni, alimentari e non solo, nelle carceri italiane. Nella vetrina ufficiale sul sito del Ministero della giustizia non sono presenti tutte le esperienze menzionate sopra. È di sicuro aiuto in questo senso lo sforzo di Economia carceraria, negozio online che prova a tenere insieme alcuni dei produttori che operano nei diversi istituti penitenziari.
Ma in carcere comanda la pena
Tra le realtà più giovani che si occupano di panificazione all’interno di un istituto di pena, c’è la cooperativa Sapori di libertà, a Mantova. Nata ad agosto 2022 affonda le sue radici in un incontro avvenuto proprio in carcere, tra l’associazione Libra e un panettiere, Cristian Sarzi Amadè, che già nel 2016 aveva proposto all’amministrazione penitenziaria di Mantova di dare vita ad un forno dentro la casa circondariale.
«Era da un po’ di tempo che mi proponevano di ospitare nel mio panificio alcuni detenuti per delle borse lavoro, ma il tempo era sempre troppo poco per una formazione adeguata. Così ho provato a scrivere un progetto per la realizzazione di un forno in carcere e l’ho presentato all’amministrazione dell’istituto. È rimasto sul fondo di qualche cassetto per lungo tempo» racconta Sarzi Amadè. «Finché un giorno anche l’associazione Libra ha avuto la mia stessa idea e in carcere qualcuno si è ricordato del mio progetto. Grazie all’associazione siamo riusciti a partire. In carcere c’era finalmente un luogo dove qualcosa di buono poteva nascere: il nostro forno. Così è nato il progetto Sapori di libertà. Abbiamo iniziato a vendere fuori dal carcere nel 2018 e subito abbiamo vinto l’appalto per la fornitura di pane nelle scuole di Mantova. Quando l’abbiamo detto ai ragazzi è stato un momento di felicità vera».
I limiti della produzione in carcere sono tanti: «quando i detenuti vengono a lavoro sono determinati e volenterosi, si dimenticano di essere ristretti. È come una bolla di normalità nella routine delle loro giornate. Poi però tornano in sezione e la bolla scoppia. Basta un’incomprensione con un compagno di cella, un problema con gli agenti penitenziari, e il giorno dopo in laboratorio non si presenta nessuno. Io cerco di dire loro che il lavoro impone serietà, che l’impegno assunto con un cliente viene prima di ogni cosa, esigo rispetto e puntualità. Ma in carcere viene prima la pena».
La concretezza disincantata di Sarzi Amadè è quella di un fornaio prestato al sociale. Abituato a svegliarsi la notte per impastare, e a fissare il fuoco, anche in piena estate, per togliergli il pane al momento giusto. Non usa giri di parole: «noi siamo una briciola in quel sistema, solo un pezzettino di lievito nelle vite dei ragazzi che ci affidano. Ma il lievito da solo non basta a fare il pane».
Con un piede fuori
«Però non ci siamo lasciati scoraggiare!» riprende subito tono la conversazione con Sarzi Amadè. «Per stare sul mercato al progetto mancava un piede fuori dal carcere, così ho proposto all’associazione di prendere anche il mio forno, quello in cui avevo investito tutta la mia vita prima di incontrare il carcere. Con due forni avremmo potuto spostare all’esterno del carcere la produzione del fresco e specializzare il forno all’interno dell’istituto per la produzione dei superlievitati e della pasticciera. È così che nel 2022 è nata la cooperativa, per gestire i due forni e costruire un’opportunità concreta anche per i detenuti prossimi alla scarcerazione».
Con il passaggio del forno di Sarzi Amadè, Mantova pane, alla cooperativa Sapori di libertà il progetto ha assunto un gusto diverso. Anche l’investimento nella formazione dei detenuti in carcere si è orientata con più decisione ad un’attività che guardava ad un futuro concreto e reale, anche oltre il carcere. Oggi a Mantova pane sono impiegati due ex detenuti. Ma è inutile chiedere a Sarzi Amadè di raccontare i successi e le storie di riscatto che il progetto ha generato (come quella dei due già impiegati fuori dal carcere). Il suo pensiero fisso è uno: «penso a tutti quelli che non ce l’hanno fatta, non puoi immaginare quanta frustrazione».
Lontano da bilanci sociali, numeri e statistiche che dimostrano l’effettivo abbattimento dei tassi di recidiva nei detenuti che lavorano in carcere, per Sarzi Amadè è troppo presto per alzare bandiere. «Se dovessi fare un bilancio tra le persone che ce l’hanno fatta e quelle che invece mi hanno deluso, vincerebbero le seconde. Senza dubbio. Ma stai sbagliando la prospettiva» mi corregge con un sorriso amaro.
Il lavoro in carcere non salva, non è quello l’obiettivo. Se andassi in carcere solo per contare le persone che si salvano grazie al lavoro che insegno loro, mi sarei già ritirato
«Un giorno un detenuto mi ha mostrato un tatuaggio che diceva: “C’è gente che viaggia per conoscere persone nuove, io viaggio per dimenticare quelle che ho conosciuto”. Perché ho lasciato il mio panificio per venire in carcere? Per smentire quel tatuaggio. Perché è dovere di tutti togliere l’alibi a chi lo ha tatuato nella sua vita. Presentare strade differenti, far conoscere brave persone, dare l’occasione di fare cose buone. Il ragazzo col tatuaggio mi aveva giurato che non mi avrebbe deluso, che mi avrebbe seguito al panificio anche fuori e avremmo fatto cose grandi. Ci credeva davvero, aveva un’abilità pazzesca con i lievitati. Ma una volta uscito, anche lui, ha ripreso la vecchia strada ed è tornato in carcere».
«Non mi interessano le statistiche, io qui non salvo nessuno, metto solo un pizzico di lievito nella vita di queste persone. Faccio quello che una società civile dovrebbe fare: indicare una possibilità, a tutti. Poi ognuno resta padrone della propria vita».
Foto di apertura di Mariana Kurnyk / Pexels.com
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.