Cultura
Quelli che in Europa ci vanno col cuore
Unione non vuol dire solo moneta, ma anche economia sociale e solidarietà. Se ne è accorta la Commissione europea, che per la prima volta ha stilato un documento sul Terzo settore. Prossimo obiettivo:
Come l?uomo di latta nel ?Mago di Oz?, anche l?economia europea è in cerca di un cuore. E da Bruxelles arriva notizia di un qualche battito, e dei conseguenti scricchiolii tra le giunture metalliche degli eurobanchieri: non profit, Terzo settore, economia sociale, associazioni, cooperative, fondazioni. Se si presta ascolto, ci si accorge che il tam tam ripete questo. E poi un?idea: l?economia sociale, quella fatta di uomini oltre che di capitali, è la strada giusta per trasformare la confederazione da un?unione di banche a un?unione di popoli e persone, salvando la solidarietà che i bilanci pubblici non sono più in grado di perseguire.
La prima forma concreta di questa idea ha visto la luce alla fine dello scorso anno. La Commissione ha pubblicato una comunicazione su ?promozioni delle associazioni e delle fondazioni in Europa?, dunque su una parte del Terzo settore, (sono escluse le cooperative e le mutue). La comunicazione contiene qualche affermazione di principio, alcuni buoni propositi per indirizzare la politica dell?Unione riguardo al non profit e i risultati di un?indagine esplorativa partita nel 1993. Ma la sua importanza è soprattutto formale: si tratta del primo documento ufficiale dell?Ue sul non profit di un certo peso. Il che, nella complicata gerarchia degli atti amministrativi di Bruxelles, vuol dire molto. E cioé l?avvenuta emersione di un lavoro sotterraneo durato anni di consultazioni con le associazioni di tutti i paesi europei, e poi l?appiglio formale per approntare nel futuro una politica più concreta. Al punto che il 2001, nelle intenzioni della Commissione, sarà l?anno europeo dell?associazionismo: il miglior riconoscimento possibile all?importanza del ruolo del volontariato e dell?economia sociale.
Ma i segnali sono anche altri: nell?ultima riunione dei ministri europei di Lussemburgo lo sviluppo del Terzo settore è stato indicato come una delle leve sui cui puntare per ridurre la disoccupazione. E infatti nell?ambito dei programmi che riguardano l?occupazione, uno spazio di finanziamento, anche se ridotto, è stato previsto proprio per il non profit.
«Già altre volte le nostre proposte sono state bloccate dal Consiglio (l?organo dell?Unione composto dai ministri degli stati membri, ndr)», spiega Alice Copette, la funzionaria belga della DG XIII che dirige il dipartimento di economia sociale della Commissione. «Ma questa volta speriamo di avere maggior successo. Innanzitutto c?è questo documento che parte da una deliberazione del Parlamento di qualche anno fa, e che ci dà l?occasione di programmare il lavoro in maniera puntuale. Per esempio, il comitato consultivo che si è riunito spesso in questi anni presso la nostra Dg, riceverà una veste formale, sarà istituzionalizzato. E vi siederanno anche i rappresentanti del non profit italiano, che stiamo scegliendo sulla base di una consultazione con le organizzazioni. Poi abbiamo approntato un programma di azione» prosegue Alice Copette, «con un calendario che prevede la convocazione di una serie di conferenze nei paesi membri. A fine anno intendiamo proporre un programma quadro che vincoli maggiormente i paesi membri. Non sappiamo se questo processo produrrà anche degli atti normativi. Ci sono Paesi tradizionalmente contrari a una visione non profit dell?economia. Per esempio, la Gran Bretagna. Anche se la situazione è mutata ultimamente».
E la mutazione è tale che la sesta conferenza sull?economia sociale si terrà proprio a Birmingham, ai primi di giugno. «Quello che resta da fare», spiega Giovanni Ascani, responsabile delle politiche europee per le Acli, «è trovare un punto d?incontro con quei Paesi che non ritengono di dover ricorrere a una normativa europea in questo settore, perché giudicano sufficiente quella nazionale. Finora la discussione su uno statuto europeo delle associazioni è stata bloccata da queste spinte. Ma anche in questo senso qualcosa sta cambiando»
Dalle conclusioni della Comunicazione si può trarre una indicazione di massima sulla politica europea verso il Terzo settore da qui al 2001. Innanzitutto la separazione, netta, con il settore pubblico. Dice il rapporto nella parte in cui si rivolge agli Stati membri: «Le associazioni e le fondazioni sono e devono rimanere indipendenti dall?amministrazione pubblica». Anche se è necessario, prosegue il documento, cercare forme di partnership. E poi: occorre incentivare la formazione dei soggetti, per permettere loro di sviluppare le capacità che servono. Apprestare una disciplina fiscale trasparente, semplice e non vessatoria. Velatamente, data la gelosia dei paesi membri riguardo la propria politica impositiva, si auspica anche un regime di incentivazione per l?afflusso dei fondi alle organizzazioni non profit, privati e pubblici. Non solo: le associazioni non saranno più costrette a un ruolo oscuro di lobbyng rispetto alle politiche comunitarie, ma saranno considerate un interlocutore importante, al pari delle altre componenti della società. È prevista la formazione di un osservatorio destinato a seguire l?evoluzione del settore nel mercato unico, e di uno speciale fondo finalizzato a facilitare le attività trasnazionali delle associazioni. Non a tutti ciò che è stato fatto sembra abbastanza. Tra quelli che vedono il bicchiere ancora mezzo vuoto c?è Antonio Baldassarre, ex presidente della Corte costituzionale, da tempo impegnato sui giornali a difendere l?idea che volontariato e non profit siano due componenti imprescindibili dell?Europa di Maastricht. «Qualcosa è stato fatto» spiega Baldassarre «ma è ancora troppo poco. Ci sono grandi differenze di vedute che si traducono in spinte frenanti, per esempio da parte della Gran Bretagna, che rifiuta l?idea di un?economia non individualistica. È strano come negli Usa, da presupposti uguali si sia arrivato a uno sviluppo così forte del non profit. Quel modello va importato in Europa, con i dovuti correttivi imposti dalla nostra cultura. D?altronde è l?unico modo che abbiamo di perseguire gli obbiettivi che prima erano raggiunti tramite il welfare state».
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