Medio Oriente

Giordania, un Paese con la vocazione alla pace

di Anna Spena

In Giordania vivono 11 milioni di persone, 1 milione e 300mila sono rifugiati. Con il progetto Mujtamai Amani - la mia comunità è la mia sicurezza - si prova a rispondere ai bisogni sia della popolazione rifugiata che della popolazione locale: l’obiettivo di tutte le iniziative è la costruzione di una comunità più forte e coesa

«La Giordania è ospitale», sono queste le parole precise che sceglie Nicola Orsini per descrivere un Paese che si è costruito anche sulle diaspore e sui rifugiati. Nicola Orsini è rappresentante per la Giordania di fondazione Avsi. L’ong italiana lavora qui dal 2009.

La Giordania e i suoi confini

«Per capire la Giordania di oggi», racconta Orsini, «dobbiamo guardare soprattutto i suoi confini: l’Arabia Saudita a sud e a est, l’Iraq a nord-est, la Siria a nord e la Cisgiordania, Israele e il Mar Morto a ovest. È un Paese “cuscinetto” nell’area del Medio Oriente, un’area caratterizzata da guerre e conflitti». In Giordania vivono undici milioni di persone, un terzo non è di origine giordana. «Prima i profughi palestinesi, poi l’arrivo di quelli iracheni, e poi tantissimi sono i siriani che qui hanno trovato riparo: ufficiosamente la Giordania ne ospita un milione e 300mila». (Qui il podcast dedicato)

Petra

Un Paese che ha dimostrato di essere solidale ma che comunque: «ha enormi difficoltà economiche e vive, in larga parte, grazie agli aiuti umanitari. Non ha risorse naturali, né industrie, né risorse idriche: l’80% del territorio è deserto. Un Paese dove la disoccupazione giovanile raggiunge il 50%, ed è il terzo al mondo con la più bassa percentuale di donne che lavorano. Ma anche uno dei Paesi più giovani del mondo: poco più del 60% della popolazione ha meno di 30 anni. Un Paese, dico spesso io, che ha una vocazione alla pace, un Paese che a prescindere da tutto che rimane bellissimo».

E infatti il turismo era centrale per il sostentamento della Giordania. Un Paese che ha dimostrato di essere solidale ma che comunque: «ha enormi difficoltà economiche e vive, in larga parte, grazie agli aiuti umanitari. Non ha risorse naturali, né industrie, né risorse idriche: l’80% del territorio è deserto. Un Paese dove la disoccupazione giovanile raggiunge il 50%, ed è il terzo al mondo con la più bassa percentuale di donne che lavorano. Ma anche uno dei Paesi più giovani del mondo: poco più del 60% della popolazione ha meno di 30 anni. Un Paese, dico spesso io, che ha una vocazione alla pace, un Paese che a prescindere da tutto che rimane bellissimo».

E infatti il turismo era centrale per il sostentamento della Giordania. «A Petra, simbolo della Giordania, arrivavano un milione di visitatori l’anno». Dal sette ottobre, dopo l’inizio del conflitto tra Israele e Hamas, «c’è stata», racconta Orsini, «una riduzione del 70%». Ci sono parecchi chilometri di confine tra la Giordania, la Cisgiordania e Israele. Metà della popolazione giordana è palestinese o di ordine palestinese. La guerra che sta distruggendo la Striscia di Gaza, non è un fatto isolato. I conflitti funzionano come le gocce d’acqua che cadono dentro le pozzanghere: da un lato le riempiono, dall’altro, le pozzanghere, le allargano. Dopo l’inizio della guerra tra Israele e Hamas e dopo i bombardamenti indiscriminati sulla Striscia di Gaza, la Giordania ha voluto che l’ambasciatore israeliano lasciasse il Paese: «è stato un segnale forte, che ha espresso una posizione chiara. La priorità è di garantire aiuti umanitari a Gaza e alla popolazione palestinese e continuare a sostenere una soluzione a due Stati». Ma ad oggi né l’una e né l’altra sembrano essere rispettate: il numero di camion umanitari che entra dal valico di Rafah, al confine con l’Egitto, è troppo esiguo e non risponde neanche lontanamente ai bisogni della popolazione e la soluzione a due Stati si fa ogni giorno più lontana. «Nonostante la scarsità di risorse la Giordania è un Paese che cresce rapidamente», spiega Orsini. «Per questo la famiglia reale ha implicitamente fatto capire che c’è una linea rossa che non può essere superata: non si possono ospitare altri milioni di profughi». Ma nel progetto del governo israeliano, che i palestinesi li chiama solo arabi, c’è questo disegno qui: trovare posto in un altro Stato limitrofo.

Giordania, villaggio di Quweirah

Comunità

Che sia nel Nord del Paese, dove i campi profughi informali disegnano la geografia dei luoghi, fino al deserto del Wadi Rum dove i colori si fanno caldi, e ancora verso il profondo Sud nel governatorato di Aqaba, qui la Giordania si apre sul Mar Rosso, c’è una forza che travalica la bellezza. La forza è la comunità, tutta. I giordani, i giordani d’adozione, i rifugiati. Non è un caso che tra i progetti che l’ong Avsi sostiene nel Paese, tra i più importanti, ci sia “Mujtamai Amani”. Un’espressione bellissima che significa: “La mia comunità è la mia sicurezza”. «Il titolo dice molto dell’obiettivo di questa iniziativa», racconta Jessica Verdelli, responsabile del progetto. «Quello che stiamo provando a fare insieme alla società civile locale è creare dei meccanismi intracomunitari di sicurezza e di protezione. E proviamo a farlo da Nord a Sud, lavoriamo nel governatorato di Al – Mafraq e di Al – Zarqa al nord, dove si concentra il numero più alto di rifugiati, prevalentemente siriani, e poi anche nei governatorati del Sud, in modo particolare in quello di Aqaba. Ogni luogo ha delle sue caratteristiche particolari e le iniziative sono state modellate sui bisogni delle comunità che incontriamo, sono nate dal dialogo con loro, non sono calate dall’altro».

Mujtamai Amani lavora su più piani: dal contrasto alla violenza domestica «fenomeno», spiega Verdelli, «diffusissimo ma che rimane sotto traccia», alle attività di sport per i minori o a quelle di arte terapia dedicate a tutta la famiglia o ancora il sostegno sanitario. «Vogliamo», continua Verdelli, «attraverso un approccio multidimensionale fornire un supporto a 360 gradi alle persone che incontriamo». Ad oggi sono state 11mila le persone coinvolte nei progetti, sia rifugiati di varia nazionalità che giordani in condizione di fragilità, l’idea è che questa diventi un’iniziativa permanente dell’organizzazione. Ma un progetto che si sviluppa in tutto il territorio e coinvolge un numero così alto di persone, riesce ed è possibile, solo grazie ad un lavoro straordinario di rete. Mujtamai Amani è sostenuto dal governo italiano tramite l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) – da anni presente con una sua sede ad Amman – e si realizza in consorzio con un’altra ong italiana, Terre des Hommes, e con decide e decide di partner locali, divisi nei vari governatorati, e le municipalità. «L’Agenzia italiana per la Cooperazione allo sviluppo», racconta Michele Rezza Sanchez, emergency and resilience programme manager Aics Amman, «sostiene il progetto ed è convinta che la chiave di volta ed il ruolo della cooperazione sia proprio quello di rafforzare le comunità locali. Noi qui lavoriamo in tre modi: attraverso un sostegno diretto al governo, attraverso sostegni alle organizzazioni internazionali e attraverso sostegno alle organizzazioni della società civile. La cosa particolarmente importante è che attraverso la collaborazione con le organizzazioni della società civile c’è la possibilità di lavorare a livello di comunità, cioè, favorendo gli scambi tra comunità italiane e comunità giordane, coinvolgendo le comunità sia nell’identificazione dei bisogni sia nella realizzazione degli interventi e facilitando uno scambio di esperienze e uno scambio culturale soprattutto su tematiche come l’inclusione sociale o la lotta alla violenza. Mujtamai Amani si compone di diverse attività, tutte necessarie: dal supporto in denaro per soddisfare i bisogni immediati dei rifugiati alla formazione legale sui diritti e sull’ingresso al mercato del lavoro, dalle attività con i bambini e il supporto psicosociale agli eventi di formazione e sensibilizzazione. E questo approccio è importante». Tutti gli interventi sostenuti da Aics: «ambiscono», spiega Rezza Sanchez, «certamente a rispondere a un’emergenza, ma anche ad andare verso soluzioni durature di sviluppo e hanno come obiettivo ultimo quello di cercare il più possibile di restituire normalità alla vita delle persone».

Prima le persone

Safa è una donna sorridente solo dopo e anche una rifugiata siriana e tutto quello che comporta. Ha 43 anni e prima viveva a Damasco. Nel 2013 è scappata in Giordania per fuggire dalla guerra. Oggi è vedova, ha tre figli e due vivono con lei ad Aqaba, nel sud del Paese. La prima figlia, invece, è rimasta in Siria e in questi anni è diventata madre, ma Safa, suo nipote, non l’ha mai visto «solo in videochiamata», racconta. Lei è una delle donne intercettate dal progetto Mujtamai Amani e frequenta il Centro Armony, nel governatorato di Aqaba, la realtà è una dei partner del progetto. Il centro nasce in uno dei quartieri più poveri della città, è una struttura a piano terra con uno spazio comune e una cucina professionale.  «Dall’analisi del territorio», racconta Verdelli, «è emerso un evidente bisogno di servizi di base di qualità, tra cui i servizi di protezione, soprattutto considerando  il numero di famiglie che ha dichiarato di essere soggette a forma di violenza di genere, domestica e abuso. Ma qui è più diradata la presenza di organizzazioni internazionali».

Fondazione Avsi, infatti è l’unica ong registrata al Sud del Paese. Nel centro Armony, tre volte alla settimana, donne siriane e giordane si incontrano per cucinare insieme i piatti della loro tradizione culinaria. Questo spazio per loro rappresenta uno spazio sicuro e di libertà. Adesso il cibo che cucinano spesso viene venduto e quindi l’attività ha iniziato a generare reddito. «Qui le donne», racconta Verdelli, «si possono riunire senza barriere di genere, sociali o culturali. Per chi è abituato a stare a casa e curare “mariti e figli”, avere un luogo tutto per sé diventa fondamentale. Sono diventate amiche, ridono molto. E questo è un gran successo». A guidare questo gruppo di donne straordinarie c’è Nadwa, 62 anni. È siriana, viveva a Damasco. «Mi manca la Siria, ma lì non ho più niente, Prima della guerra avevo una vita normale, ma ora…», racconta. «Qui invece con il lavoro posso sostenere la mia famiglia». Sempre a Aqaba, grazie alla collaborazione con il ministero della gioventù, l’ong tiene attività sportive e ludiche per i minori e incontri di formazione e sensibilizzazione per le donne. Anche nel villaggio di Quweirah, un villaggio a Sud del Paese, che nasce a ridosso del deserto del Wadi Rum, le donne stanno al centro. È un villaggio piccolo, isolato, che non ha servizi o infrastrutture, spesso le strade non sono asfaltate. Le donne vivono in una comunità più chiusa rispetto alle città grandi città. Qui i team leaders di Avsi, presenti in tutte le città coinvolte dal progetto, sono vere antenne sul territorio che intercettano bisogni e lavorano sulla formazione: eventi di sensibilizzazione sul riciclo o sulla prevenzione in tema salute e ancora sulle attività di supporto psico-sociale. 

Famiglia

Quello di famiglia, così come quello di comunità è un concetto chiave. Gli interventi di Mujtamai Amani non sono stati pensati per il singolo, ma partono dal singolo e poi si allargano. Spesso partono dai bambini: rifugiati e giordani. «Gli stipendi medi delle famiglie più vulnerabili», spiega la responsabile del progetto Jessica Verdelli, «sono molto bassi. La disoccupazione è alta. Questo spinge un gran numero di famiglie a fare scelte sbagliate per rispondere ai bisogni essenziali. Lo sfruttamento del lavoro minorile, l’abbandono scolastico e i matrimoni precoci, sono fenomeni diffusi». A Rihab, nel nord del Paese, il 23% delle famiglie intervistate da Avsi ha detto di non mandare i propri figli a scuola. Qui come a Zarqa è emerso il bisogno di attività ricreative e di supporto psicosociale.

Rama ha 24 anni, oggi lavora come social workers per fondazione Avsi nelle attività con i minori, ma prima è stata anche lei una delle bambine che ha partecipato ai progetti della fondazione: «Mi occupo dei laboratori di arte terapia», racconta in un centro a Zarqa, «questi momenti sono importanti perché danno la possibilità ai bambini di esprimere i loro sentimenti in uno spazio protetto. I sentimenti vanno dall’amore alla rabbia, tanti dei bambini che stanno con noi sono nati in famiglie incredibilmente vulnerabili». Uno dei partner principali di fondazione Avsi per il progetto Mujtamai Amani è l’associazione Petra National Trust, presieduta dalla principessa Dana Firas, che incentra tutto il suo lavoro sulla tutela del patrimonio culturale e artistico della Giordania.  È la più antica organizzazione nazionale giordana per la conservazione del patrimonio culturale. Quando è nata si focalizzava sulla conservazione dei valori e del significato del sito di Petra, Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco, oggi il lavoro dell’organizzazione riguarda siti culturali, archeologici e del Patrimonio dell’Umanità del Paese. Per il progetto Mujtamai Amani mette a disposizione le sue competenze e porta il suo contributo per permettere ai giovani rifugiati e giordani di conoscere sempre di più il patrimonio culturale che li circonda e la storia del Paese in cui sono nati o che li ospita. «La nostra partnership con Avsi è molto importante», spiega la presidente di Petra National Trust, «è anche importante investire su tutta la comunità, noi esistiamo come parte di una comunità, siamo parte di una comunità. L’idea alla base di tutto il lavoro dell’associazione, e quindi anche di questo progetto, è che per avere comunità forti bisogna costruire individui forti. La nostra comunità è un cerchio, un cerchio di valore e di sicurezza e anche tantissimi membri vulnerabili che fanno parte della comunità possono dare supporto e forza per il programma di costruzione a cui stiamo lavorando insieme».

La salute per tutti

I campi profughi informali disegnano la geografia a Nord del Paese.  «In modo particolare», racconta Beatrice Ascenzi, referente del progetto per l’ong Terre des Hommes, «le donne che  risiedono nei campi sono ostacolate nell’accesso a servizi di salute sessuale, riproduttiva e di pianificazione  famigliare a causa delle norme socio culturali relative e per la convinzione che questi servizi non siano la  priorità e che quindi non valga la pena pagare per accedervi». Per rispondere a questo bisogno tramite Mujtamai Amani si è avviata una collaborazione con il Centro Soldier Family Welfare Society, che è diventato partner del progetto. A scadenza regolare il centro apre le sue porte e garantisce a tutti visite gratuite. Ma ancora: «con il team composto da un ginecologo e una ginecologa ed un pediatra e un’infermiera», spiega Ascenzi, «visitiamo ogni giorno un campo profughi informale nel governatorato di Mafraq». 

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