Welfare

Il nostro orologio segna zero ore

Da Milano a Roma, da Napoli a Messina. Per incontrare Eleonora, Mauro, Salvatore e Francesco. Per capire come si sente chi passa la giornata in un’attesa senza fine. Quattro nomi, per dare voce a qu

di Alessandro Sortino

Diamo voce ai senza lavoro. Questo il filo conduttore delle sei pagine che dedichiamo in questo numero al problema del lavoro, visto dalla parte di chi non ce l?ha o l?ha perso. Nel dibattito spesso sterile a cui assistiamo in questi giorni, e che vede protagonisti i grandi temi strategici delle 35 ore, il part time, le agenzie per l?occupazione nel Sud, i disoccupati sono rimasti sullo sfondo. Quasi che i diretti interessati non fossero innanzitutto loro, quasi tre milioni di nostri connazionali a cui è negato un diritto fondamentale. Siamo andati a cercarli a Milano, Roma, Napoli e Messina: qui vi raccontiamo le storie e pubblichiamo le foto di quattro di loro, togliendoli dall?anonimato che li rende invisibili, meno cittadini e perfino meno uomini. Perché, come ci spiega lo psichiatra Vittorino Andreoli, il loro dramma non è soltanto economico ma anche psicologico, e va a toccare direttamente la dignità della persona umana. Siamo andati anche a cercare alcuni dei centinaia di messaggi inviati dai disoccupati alle agenzie che offrono lavoro in affitto o agli uffici di collocamento, e li pubblichiamo così come sono, come ha già fatto in Francia il quotidiano Le Monde, che ha dedicato alle parole degli chomeurs un inserto speciale. In Italia, invece, è la Chiesa, a dare la sveglia al governo: dalle nostre pagine monsignor Charrier, responsabile dei problemi del lavoro per la Cei, scaglia una dura accusa di immobilismo e inefficienza allo Stato, a cui risponde la ministra Livia Turco. Per cominciare a immaginare soluzioni al primo problema italiano.

Addio ai sogni d?arte
Segretaria sarà bello

«Il tuo lavoro adesso è cercare lavoro», le hanno detto in famiglia. Lei Eleonora Lenti, 25 anni diplomata all?Accademia di Belle Arti di Brera, sorride ripetendo questa frase, ma il suo sorriso è un po? amaro ripensando a questi mesi di colloqui, di risposte alle inserzioni e del ritornello conclusivo dei vari colloqui: «Ci risentiamo», «Le faremo sapere».
«Mi sono diplomata a Brera a 21 anni, ho mandato domande alle scuole, pubbliche e private, sperando almeno in una supplenza, ma da quel fronte nessuna risposta. Ho lavorato tre mesi al teatro del Buratto come costumista, mi davano poco più di seimila lire all?ora, ma era un?assunzione a termine. Poi ho trovato, tramite un amico, un posto in un catering, avevano bisogno di qualcuno con gusto artistico, avevo fatto scenografia, ma mi hanno assunta come segretaria». Per due anni Eleonora ha lavorato, inquadrata come segretaria part time con un contratto di formazione, faceva un po? di tutto e il part time era solo nominale. C?erano giorni, come in occasione di matrimoni o feste nei quali Eleonora lavorava anche 20 ore, facendo dalle fatture, al rapporto coi clienti, alla spesa, agli accordi con i cuochi e i camerieri. «A gennaio doveva partire il contratto, è a quel punto che sono sorti i problemi. L?ultimo dell?anno avevo lavorato 24 ore», racconta Eleonora, «e ho chiesto che mi pagassero almeno le ore notturne, gli straordinari. Ho preso il contratto nazionale e ho fatto vedere cosa c?era scritto. Beh, ora sono in giro a fare i colloqui. Non mi hanno cacciato, ma mi hanno messo nella condizione di andarmene. Perché mi hanno fatto capire che anche con il contratto a tempo pieno e indeterminato le cose non sarebbero cambiate». Eleonora Lenti oggi fa quattro, cinque colloqui a settimana. «Ma non ti chiedono solo cosa sai fare come segretaria o nei rapporti con i clienti, vogliono sapere se sei fidanzata, se intendi sposarti», dice scuotendo la testa. Ha appena fatto un colloquio per una multinazionale della ristorazione collettiva, è fiduciosa, ma allo stesso tempo mette le mani avanti. «Il problema è la formazione che ora mi devo fare a spese mie: è un investimento. Con il liceo artistico e Brera non si fa inglese. A 14 anni mi sentivo tanto artista e ora tanto disoccupata».

Colto, disposto a tutto
di professione precario

La disoccupazione? C?è ma non si vede, come canticchiava qualche anno fa un personaggio di Carosello a proposito della sua pancia. Non si vede in tv, non si vede nelle statistiche. Lo dimostra la storia di Mauro Brunetti, trentaquattro anni, di cui dieci passati a cercare lavoro. Per l?Istat un lavoro, seppur precario, lui ce l?ha. Percepisce cinquecento mila lire al mese come impiegato part time. Mauro è un emigrante al contrario. La sua famiglia è di Biella. Lui è arrivato a Roma per laurearsi ma poi si è messo a lavorare. A trentaquattro anni si è reso conto di avere una buona cultura, senza saper fare nulla di ciò che il mercato chiede. «Non sono riuscito a trovare un lavoro che durasse più di un anno. Ho lavorato in una libreria, poi ho ottenuto un contratto di formazione lavoro in un?agenzia immobiliare. Il proprietario mi ha confermato, con un contratto part time. 500 mila lire al mese». Il suo ?datore di lavoro? è un nobile romano. Lo ha assunto per gestire il suo patrimonio di famiglia: ville, azioni, terreni. Ha una sorella che fa la sceneggiatrice a New York (ma vive di rendita) e un fratello che fa il volontario per i bambini Down. Con dieci milioni al mese di vitalizio. Mauro non può sposarsi. I genitori pensionati gli mandano i soldi per pagarsi l?affitto. Cinquanta metri quadri in periferia. «Il mio datore di lavoro spende ogni estate, per le sue vacanze, quello che guadagnerei io in un anno se mi pagasse ad orario continuato». Certo, tra ?padrone? e ?lavoratore? i rapporti sono cordiali, amichevoli quasi. La distanza c?è, la differenza di classe pure, ma non si vedono. Non più.
Un modo c?è però, nell?era della comunicazione, per rendere visibile la realtà. Allestire una metafora che le dia cittadinanza all?interno nel mondo delle parole. E a Roma, Mauro e i suoi amici ci sono riusciti. Si sono presentati a un concerto di rock colto, quello di Elvis Costello all?auditorium di Santa Cecilia, un posto in platea costava cinquanta mila lire. Sono saliti sul palco indossando le tute di carta bianche, quelle che si portano nei cantieri, usa e getta come i lavori che si trovano oggi. La lezione che il pubblico dell?auditorium ha appreso è la seguente: chi è il disoccupato di cui tanto si parla in tv e nei salotti? Uno che non può andare a un concerto, perché non ha i soldi per il biglietto. Seconda tappa di questa marcia per la visibilità: un autobus occupato, stesse tute bianche, stessa lezione: chi è il disoccupato? Uno che non può muoversi perché non ha i soldi per pagare i trasporti. Si fanno chiamare ?Disoccupati invisibili? e insieme a un altro comitato ?In marcia per il lavoro? hanno deciso di raggiungere un obbiettivo importante: la visibilità.
Ecco allora che si può guardare in faccia, questo nuovo ?quarto stato?, e non vi trovi i profili del quadro di Pelizza da Volpedo. Contadini, operai. Invece ci sono maestri di scuola, ragionieri, impiegati. Ad esempio Guido Lutrario, 35 anni, maestro di scuola, portavoce del gruppo del centro sociale ?corto circuito? a Cinecittà. È lui che disegna il profilo del ?disoccupato invisibile?: «Spesso ha un lavoro precario, si arrangia, ma non ha nessuna prospettiva. La sua malattia sociale possiamo chiamarla così: angoscia passivizzante». I rischi? A poco a poco, sparire del tutto.

Dai coralli alla cucina
E una vita da irregolare

«Garzone, fioraio, autista, cuoco, corallaro: nella mia vita ho fatto tutto senza raccogliere nulla. Sono un disoccupato vero, storico, anche se con quelli organizzati c?entro poco». Lo sguardo di Salvatore Colamarino si perde. Ha gli occhi piccoli e profondi, un?aria triste. Se gli chiedi cosa significhi essere un disoccupato storico, ti spara una risposta raggelante: «Sono nato il 18/2/49…». Ha quasi cinquant?anni e ancora lotta per la dignità. Colamarino è di Torre del Greco, alle porte di Napoli, capitale della lavorazione del corallo, con un tasso di disoccupazione da brivido. Una terra ricca, ma ingenerosa. Salvatore non ha un mestiere, dice di essere un tagliatore di corallo: «Non c?è torrese che non sappia maneggiare il corallo». Ma è disoccupato, non ha mai trovato qualcuno che gli offrisse un lavoro regolare. Da quando i genitori sono morti, vive in casa della sorella.
Salvatore è un fiume in piena. E racconta la sua storia: del diploma di perito termotecnico, della scelta di non sposarsi, di quegli amici che l?hanno amato. Agita le sue mani operaie, consumate dal lavoro oscuro. Ogni tanto divora una sigaretta. «Quando decisi di dire basta ai lavoretti saltuari, cominciai da apprendista in un laboratorio di corallo. Passavo la giornata a tagliare il materiale, piegato su un tavolino con una mola. Non era granché, ma mi stava bene. Quattro anni dopo», ricorda, «i miei titolari s?inventarono la crisi: ?Non vendiamo più: le spese sono alte, il lavoro scarseggia…?. Le solite cose. Pochi giorni e mi ritrovai per strada».
Salvatore raccoglie le idee e riparte: «Mi misi in proprio. Facevo il giro dei laboratori dei corallari per raccogliere ciò che essi buttavano. Ma non durò, non poteva durare». E allora? «Allora, mi rimetto in giro, cercando un buco dove lavorare. Qualsiasi, pur di cambiare. Trovo un posto di cuoco in una comunità per il recupero di ragazzi a rischio a Somma Vesuviana. 700 mila lire al mese, comprese le spese di viaggio. La cucina era immonda: si rischiava il tetano. Stavo male al pensiero che il pasto di quei ragazzi dipendeva da me: non avevo mai fatto il cuoco. Decisi di portarmi le ricette da casa per preparare i piatti più semplici. Facevo miracoli con quel che mi portavano: pane duro, formaggio vecchio, salumi quasi scaduti. Mi piaceva il rapporto con i giovani: con alcuni strinsi amicizia tanto che, quando si trattava di spalleggiarli, non mi tiravo indietro. Una volta contestai il direttore perché non riparava il pulmino. ?Li tenete come carcerati?, gli dissi. Il direttore non rispose. Mi chiamò qualche giorno dopo e mi liquidò: ?Abbiamo assunto un cuoco, non un sindacalista?. Salutai i ragazzi». E adesso? «Sono disoccupato, come sempre. Mi hanno offerto un posto di commesso a Napoli. Accetterò e appena posso mi sistemo in una casetta tutta mia. In un ex laboratorio artigiano». E per un attimo i suoi occhi s?illuminano. Salvatò, la vita è bella?

Licenziato dopo 30 anni
Ma io non mi arrendo

Il pizzetto su un viso pallido e magro, Francesco Campanozzi, 48 anni, comincia a raccontare trent?anni della sua vita nella Sanderson di Messina. Ora chiusa. Nel ?67 fu assunto come apprendista meccanico. «Si avverava un sogno, ero orgoglioso di lavorare lì. Rimanevo nella mia città, e facevo parte di una realtà che era una speranza. La Sanderson era imponente e affidabile come una grande industria del Nord. Pochi mesi dopo fui inserito negli uffici, a causa della mia salute cagionevole. Ma conservai un rapporto costante con gli operai, affiancandoli per un miglioramento delle condizioni lavorative. Nel ?69 si formarono le rappresentanze sindacali». Parla con orgoglio soffermandosi sulle vicissitudini che hanno portato alla chiusura della fabbrica. «Nel ?75 scattò la cassa integrazione. Durò tre anni e fece risparmiare l?azienda. Ma la Sanderson risentì di una serie di investimenti sbagliati: così nell?80 fu concessa l?amministrazione controllata. Vennero calcolati 16 miliardi di passivo. Ma l?idea era che bisognava salvare l?azienda. Si costituì una società di gestione, con un consiglio di amministrazione composto da diversi politici messinesi, che promettevano il rilancio».
Nel frattempo, Francesco si sposa. Ed entra negli organismi sindacali della fabbrica, combattendo anche contro l?anemia. «Nel?84 la Sanderson raggiunse un fatturato di 24 miliardi, cifra eccellente vista la crisi: l?ennesima dimostrazione che l?azienda era stata mal gestita. Quell?anno la Sanderson passò all?ente regionale di sviluppo agricolo ?Esa?. Era l?inizio di nuove disavventure».
Nel ?94, l?assessore regionale all?Agricoltura dispose la cassa integrazione per le maestranze, con la promessa di privatizzare l?azienda. «Non è stata favorita l?operazione Parmalat, nonostante la determinazione del colosso industriale. Furono stanziati 15 miliardi dalla Regione, ma non cambiò nulla. L?azienda fu liquidata ?96, licenziando i dipendenti. Ora attendiamo l?intervento dell?assessore regionale all?Agricoltura. E lo stabilimento ancora esiste». Un?altra cattedrale del deserto in un?area depressa. «Ho due figli. Dobbiamo continuare a lottare perchè il Sud non venga abbandonato».

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