Welfare

Marco Revelli: io e mio padre. Più soli che malati

"Pensavamo con Hegel che il welfare potesse prendere il posto dei legami personali, invece".

di Benedetta Verrini

«Mio padre vive trincerato in casa. Ma vive in provincia e questa è ancora una salvezza». In un?estate che ha visto l?ecatombe degli anziani, Marco Revelli parla di suo padre Nuto, ultraottantenne, in condizioni di salute precarie, che da quando ha perso la compagna della sua vita, tre anni fa, non vuole più uscire di casa. «Ma mio padre ha due vantaggi. Il primo è che vivendo a Cuneo, vive in una realtà dove la rete sociale resiste ancora. Il secondo vantaggio è che scrive libri. E la scrittura è un potenziamento della voce, porta rapporti, contatti, anche se fisicamente si resta sempre tra quelle quattro mura». Nuto Revelli, classe 1919, infatti è uno dei più importanti sociologi italiani, grande e appassionato osservatore della resistenza e del mondo contadino. Proprio da pochi mesi Einaudi ha pubblicato un ciclo di lezioni dedicato alle due guerre. Se invece vivesse in una metropoli? «Sarebbe tutto diverso, molto più drammatico. Quando ci penso, capisco quanto sia feroce la condizione dell?anziano oggi. La società postindustriale annienta e marginalizza con una brutalità che non riusciamo a immaginare. Quando ho studiato e guardato da vicino la realtà dei nomadi, mi sono accorto che anche su loro funzionava una stessa logica che definirei di ?stoccaggio?. Ma in quel caso avveniva togliendoli dallo sguardo, confinandoli nelle periferie più estreme. Con gli anziani lo ?stoccaggio? avviene murandoli vivi nelle loro abitazioni, quasi fossero dei loculi anzitempo». Si accusa sempre la disattenzione e l?inefficienza delle strutture. Lei è d?accordo? «Se dovessi guardare alla mia esperienza dovrei proprio dire di no. Ho avuto un?impressione ottima del nostro sistema sanitario. Visite puntuali, un medico bravissimo, prelievi del sangue a domicilio. Immagino che non sempre funzioni così. Comunque il problema non è il welfare». In che senso non lo è? «Beh, la Francia ha un welfare ben funzionante. Eppure avete visto che cosa è successo a Parigi. Il problema è più profondo. Due secoli fa Hegel aveva profetizzato il declino dei legami famigliari, per cui tutte le funzioni di mutua assistenza sarebbero passate sulle spalle della società. Oggi possiamo dire che quel progetto è fallito. Perché nessun apparato può compensare una caduta di cultura e di legami sociali. Così gli anziani, che sono maggioranza, si trovano destituiti di ogni valore e ruolo sociale. Si arriva a quell?abisso di sofferenza, dolorosamente denunciato da Bobbio nel suo pamphlet autobiografico». Anche i giovani sono risucchiati da questo cinismo generalizzato? «Non credo. I giovani sentono di più il problema del rapporto con i genitori. Con i nonni invece le cose funzionano sorpredentemente. Me ne sono reso conto frequentando i ragazzi del movimento new global. I migliori che ho incontrato, avevano alle spalle un rapporto con un anziano di famiglia. I nonni danno dei parametri etici, sono un fattore decisivo di strutturazione della personalità. Quando cogli un?autenticità che ti sorprende, capisci che quel ragazzo ha avuto la fortuna di crescere e di tenere un rapporto con un anziano».


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