Welfare

Perlasca a Buenos Aires

Enrico Calamai fu console all’ambasciata italiana in Argentina ai tempi della giunta militare.

di Paolo Manzo

Emilio Massera, Armando Lambruschini, Omar Graffigna, Antonio Bussi, Alberto Cattaneo, Mario Caffarena. E poi ancora Agosti, Bessone, Trimarco, Martella, Viola, Galtieri. Nomi italiani, italianissimi. Nomi tristemente noti ai familiari delle 30mila persone trucidate durante la dittatura militare argentina (1976- 1983). Nomi che, poche settimane fa, sono stati chiamati in causa dal giudice spagnolo Baltasar Garzón, che ha chiesto per loro l?estradizione in Spagna. Per violazioni gravi dei diritti umani, crimini contro l?umanità, genocidio e tortura. Una storia cupa, triste, notissima che s?intreccia (sul sito PROYECTO DESAPARECIDOS) con i nomi delle vittime, l?origine di molte delle quali traspare dal cognome: Adamoli, Agosti, Amato, Amarturi, Amico, Andreani, Annone, Aroldi? Una lista interminabile. 30mila nomi senza una tomba. Moltissimi connazionali di prima, seconda o terza generazione. Emigrati dalla patria matrigna che non aveva offerto loro condizioni di vita decenti. Emigrati e poi dimenticati da quella stessa patria che, per bocca dell?allora ambasciatore a Buenos Aires, Enrico Carrara, diceva nel 1978: «I desaparecidos italiani? Si contano sulle dita di una mano». Una vergogna nazionale. Svanita nel nulla come i corpi di quei 30mila, se non fosse stato per un altro italiano: Enrico Calamai. Ebbene, quest?uomo timido e schivo che oggi viaggia attorno ai 60 anni, ha deciso di aprirsi al mondo. Ne è uscito un bellissimo libro-testimonianza, Niente asilo politico. Diario di un console nell?Argentina dei desaparecidos, in cui Calamai racconta la violenza cieca e imprevedibile di un branco di criminali (i militari di Videla) e la violenza – non meno responsabile – di una democrazia occidentale. La nostra. Nell?autunno del 1972 Calamai era un giovane diplomatico che, al primo incarico, fu inviato dalla Farnesina a Buenos Aires. Al Mae (Ministero affari esteri) di certo non sapevano come il Calamai avrebbe scombussolato i piani del ?politically correct italico?, in tema di politica estera. Rimborsando biglietti di sola andata per Roma, concedendo passaporti alla velocità della luce, sollecitando la stampa nazionale e il parlamento italiano con interrogazioni parlamentari ad hoc, costruendo una rete per la salvezza dei braccati. Grazie a un sindacalista coraggioso dell?Inca Cgil, Filippo Di Benedetto, e all?inviato del Corriere della Sera, Giangiacomo Foà. Oggi Calamai si dedica, tra Spoleto e Roma, a scrivere e a occuparsi di tutela dei diritti umani. Lui che il diplomatico lo fece per imposizione familiare e che fu ?premiato? dal Mae per aver salvato cento – mille italiani, con l?assegnazione di una sede privilegiata? Katmandu, Nepal? Calamai, lei vince il concorso e la imbarcano sulla Giulio Cesare, destinazione Baires? Sì, e mi sono trovato, molto giovane, confrontato direttamente con l?oscenità del potere. Con la vera brutalità cui il potere può arrivare. È un?esperienza che mi ha molto provato, ed è quanto ho cercato di dire nel libro. Ma perché ha aspettato 25 anni per scrivere la sua testimonianza-denuncia? Perché quando mi sono ritrovato in Italia, avevo addosso un grande senso di fallimento e di impotenza. Per sopravvivere ho cercato di dimenticare. Fino a quando è stato chiamato a testimoniare al processo, contro i militari argentini? Dove mi sono tornati familiari quei ricordi e sono apparsi nella mia vita due giornalisti, Rubén Oliva ed Enrico Deaglio. Anche grazie a loro è nata l?idea di un libro. Non tanto per rivivere esperienze personali, ma per la peculiarità della mia vicenda in tema di violazioni di diritti umani. Violazioni anche effettuate da un governo democratico, come quello italiano dell?epoca, che chiuse entrambi gli occhi di fronte a un vero e proprio massacro? Già, e il mio obiettivo non è stato tanto di evidenziare la crudeltà – ormai persino banale perché conosciuta da tutti – dei militari argentini, bensì la spregiudicatezza e il cinismo dell?operato del governo italiano. Può essere più preciso? Certo. Mi riferisco a quando le violazioni dei diritti umani restano nell?ombra, volutamente, in cambio di vantaggi in campo economico. In sostanza è consenso elettorale? Ecco questo complicato intreccio – che non è evidente a tutti – tra violazioni dei diritti umani in politica estera e ottenimento del consenso attraverso un vantaggio, un tornaconto, un ritorno economico? è questo che dà senso al mio libro. Che ricordo ha di Di Benedetto, il sindacalista che lo sostenne nella sua iniziativa? Era un esponente di quello che è veramente l?umanesimo. Che non è un gioco di sofisticate culture, bensì l?idea coerente e fondante che al centro dell?organizzazione umana ci debba essere il singolo, l?individuo. Che bisogna opporsi a qualunque comportamento politico lesivo della dignità e dell?integrità dell?uomo. Ecco, per me Di Benedetto è questo: un esempio di una cultura che non è soltanto accademica, come accade spesso purtroppo da noi dove la cultura è un sofisticato dibattere che si risolve in un talk-show. bensì la capacità di vedere ciò che succede. Cosa che spesso è molto difficile, é trovare la forza d?animo di agire. Quando si rese conto di quanto stava avvenendo in Argentina? Io ero stato in Cile, dopo l?uccisione di Allende, sapevo che un golpe comporta delle atrocità. E, quindi, mi sembrava impossibile che ci fosse un golpe senza repressione. Però non la vedevo. E, come la maggior parte delle persone normali, ero contento di non vederla. Ero sollevato. Però il giorno stesso del golpe, attraverso Giangiacomo Foà, comincio a rendermi conto. Inizio a capire che non è che non ci sia la repressione, ma che è nascosta. Allora mi diventa chiaro ciò che sta accadendo. Ma non arrivavo a pensare il grado di efferatezza dei militari, che occultavano i cadaveri nell?Oceano. I militari argentini si sono spinti oltre le categorie del pensiero tramandate attraverso la società? ci sono analogie con il nazismo. La sua decisione di aiutare questa gente si scontrò con il governo italiano. Come fece? Capii immediatamente che avevo una libertà d?azione. Entro certi limiti, ma ce l?avevo: potevo utilizzare tutti gli strumenti consolari per salvare gente in pericolo di vita? I suoi superiori perché non denunciavano le atrocità? Il punto centrale era l?informazione. C?era un occultamento di ciò che succedeva su cui tutti erano d?accordo: i militari argentini, i governi democratici, la stessa classe politica italiana. E gli stessi giornali. Foà fu fatto ?sparire? dall?Argentina dai vertici piduistici del Corriere, che lo mandarono in Brasile. Lei non ha mai avuto paura? Sì, e nel libro ho cercato di spiegarlo. Non ho ricevuto minacce esplicite. Ma sapevo di essere tenuto sotto controllo. Ho avuto paura, però esistono dei meccanismi con cui si riesce a bilanciare il timore. Ci si dice che, in fondo, non succederà niente. È una sorta di scissione che permette di mantenere la lucidità, e quindi di essere razionali nell?operare. Qual è stata la sua reazione alla richiesta d?estradizione fatta da Garzon? La richiesta sottolinea un elemento molto importante, che viene incontro alle richieste delle associazioni di parenti dei desaparecidos: l?imprescrittibilità. Chi in posizione di potere decide di ricorrere alla violazione sistematica dei diritti umani, ai crimini contro l?umanità, deve sapere che può sempre arrivare il suo momento. Questo è molto importante. Crede che la crisi di oggi dell?Argentina sia derivata dall?eliminazione in massa di una generazione? In parte sì. Penso che, a suo tempo, i militari abbiano voluto, lucidamente, perseguire una soluzione finale per qualunque tipo di opposizione. E in qualche misura ci sono riusciti, in quanto hanno traumatizzato la società argentina abituandola a piegare il capo. Ad accettare qualunque cosa purché non si ripeta quello che è successo. È molto difficile fare i conti con un passato così feroce. Il terrore, quando è veramente profondo, diventa un riflesso condizionato. Non necessariamente finisce con la causa che l?ha scatenato. Entra nel dna di una popolazione. Molti la paragonano a Schindler e Perlasca. La chiamano ?el héroe italiano?. Che sentimenti prova una persona schiva e timida come lei? Intanto voglio precisare che io per primo non ho idea di quanta gente sia passata attraverso il consolato. Credo che l?importante sia stato aver messo su un meccanismo che funzionasse. E che potesse permettere di dare una via d?uscita a tante persone. Per il resto il mio sentimento è quello di un grande fallimento. È stata una goccia d?acqua, quella che ho potuto portare io, al mare dei diritti umani. Anche perché non tutti in Argentina sapevano del console italiano buono di Buenos Aires? Chi sapeva, chi pensava in qualche modo che poteva arrivare lì, in Calle Alvear, lo faceva. Molti, purtroppo, non ce l?hanno fatta.


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