Politica

Haring. Dipingere a cento mani

Nel 1989 Keith Haring dipinse un enorme murales a Pisa. Fu un vero evento di arte sociale. Lo intitolò Tuttomondo. Ora un libro lo documenta con cronache e foto.

di Giuseppe Frangi

A 500 metri dalla Torre di Pisa, a 600 dagli affreschi del Camposanto, a un chilometro dalla Normale, c?è un anomalo capolavoro, il più anticlassico che si possa immaginare. è un immenso murales dipinto sulla parete libera del convento dei frati della chiesa di Sant?Antonio. Una specie di danza rap scatenata, dove tutti ballano, uomini, animali e oggetti. Dove anche l?aria sembra catturata da quel ritmo vorticoso. Strana e imprevedibile accoppiata quella tra la città artisticamente più raffinata d?Italia e un pittore cresciuto all??accademia? dei muri della metropolitana di New York. Ma l?accoppiata che doveva provocar scintille, in realtà ha prodotto solo grande amore e una divertita armonia. Sono passati 14 anni da quel bizzarro cantiere murale, quando sull?impalcatura allestita dal Comune di Pisa con il consenso entusiasta dei frati Serviti, salì quell?artista così adorato e così bambino. Si chiamava Keith Haring ed è stato reso famoso per aver creato il simbolo universale del male che l?avrebbe ucciso: l?Aids. Keith Haring è il pittore dei graffiti, dell?arte popolare del ventesimo secolo, il creatore inesauribile di immagini e loghi che i creativi non si sono ancora stancati di copiare. Lo aveva scoperto e lanciato Andy Warhol, al quale venne poi legato da uno strano destino: ambedue realizzarono le loro ultime esposizioni-kermesse in Italia. Warhol a Milano nel 1986 (sarebbe morto pochi mesi dopo, a inizio 1987) e Haring a Pisa, nel giugno 1989: sarebbe morto nel febbraio del 90, a soli 32 anni. Era nato sulla strada e non lasciò mai la strada. Credeva nell?arte contro il sistema dell?arte e contro i mercanti. Produceva immagini imitabili, perché proliferassero senza controllo, con la spontaneità e la forza della vita. Nacque così anche l?impresa pisana, com?è documentato in un libro uscito da poco, che racconta per immagini (di Antonio Bardelli e Cippi Pitschen: tante e davvero emozionanti) e per parole, quel cantiere fuori dall?ordinario (Keith Haring a Pisa, Edizioni Ets, 18 euro). Ma come nacque quest?impresa? Naturalmente dalla strada e dal caos. Lo ricorda lo stesso Haring in una delle ultime pagine dei suoi Diari (pubblicati in Italia negli Oscar Mondadori): «Sembra incredibile che, tutto grazie ad alcune persone incontrate per strada a New York, sia nata tutta questa grande mostra. Sono seriamente interessati e mi offrono sia un muro per un murales o per un affresco, sia una mostra in un edificio vecchio di mille anni». Quelle persone erano Piergiorgio Castellani e suo padre. Il feeling tra l?artista e la città fu immediato. Del resto il monumento simbolo della città, la Torre pendente, non poteva non essergli congeniale, con quell?equilibrio che sfidava le leggi della logica e della fisica. Un edificio in stato di perenne precarietà, proprio come Keith Haring, artista, come si definiva, ?in transito?. «La torre è notevole», scrive sempre sui suoi Diari. «L?abbiamo vista alla luce del giorno e poi alla luce della luna. è veramente grandiosa e al tempo stesso esilarante. Ogni volta che la guardi ti fa sorridere». E Haring, sull?onda di quella simpatia, disegnò d?impeto un disegno che è diventato un logo: la Torre che pende e un omino che si butta a tenerla su. Ci sono pochi dubbi che quell?omino sia proprio lui, Keith Haring, tanto espansivo e innamorato della vita. Sprigionava energia, ma si sentiva coinvolto da tutto ciò che incontrava sulla sua strada: «Molti artisti», scrisse, «hanno una comprensione del mondo che li tiene distanti da esso, ma solo alcuni di loro sono davvero speciali così da poter toccare le vite di altre persone e passarvi attraverso». Lui certamente sentiva di appartenere a questa seconda categoria. In particolare si sentiva eterno bambino, con un eterno feeling verso i bambini: «Apprezzo tutto quello che è successo, soprattutto il dono della vita che mi è stata data, che ha creato un silenzioso legame tra me e i bambini. I bambini possono sentire questa ?cosa? in me. Quasi tutti i bambini hanno un senso speciale per questa ?cosa? nelle altre persone». Il cantiere pisano fu naturalmente un cantiere aperto. Sui ponteggi salirono tanti volontari, pronti a eseguire i compiti che Haring assegnava. I frati seguivano stupiti, fidandosi ciecamente di quel ragazzo newyorkese, al quale non avevano neppure chiesto un bozzetto del murales che avrebbe realizzato a casa loro. Ed è curioso nelle foto vedere il senso d?amicizia che legò le tonache di preti e suore con quell?artista dell?underground newyorkese, rotto a tutte le più spericolate esperienze. Alla fine Haring accettò anche di realizzare un?opera comune con i bambini dell?oratorio, un grande disegno dove lui si mimetizza perfettamente, senza fatica, bambino tra i bambini. «Quando vide quel disegno», racconta frate Luciano Masetti, «la madre di Keith è scoppiata a piangere per la commozione». Keith Haring volle dare anche un titolo a quella sua danza vitale e verticale. La chiamò Tuttomondo. Una specie di inno per la vita, un inno per tutte le diversità che compongono quel puzzle di cui lui si dichiara apertamente innamorato. Quando gli chiesero le ragioni di quel titolo, ebbe una risposta francescana: «Tuttomondo riassume il mio desiderio di creare una metafora del mondo in pace».


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