Manuela Raimondi

Ragazze, il futuro dipende da voi. Siate intraprendenti e autonome

di Nicla Panciera

Il terzo appuntamento con Donne&Scienza è con Manuela Raimondi, ordinaria di bioingegneria al Politecnico di Milano, dove guida il Laboratorio di Meccanobiologia nel Dipartimento di Chimica, materiali e ingegneria chimica Giulio Natta. Ci racconta la sua scienza di frontiera, che va dalla ricerca di base e quella applicata, laddove la fisica si intreccia alla biologia, all'ingegneria per trovare soluzioni innovative che mescolano naturale e artificiale, per la medicina rigenerativa e le terapie avanzate. E alle ragazze lancia un messaggio di forza: «Basta lamentarsi. Se c'è un problema, va individuato e affrontato»

È nella lista dei migliori scienziati al mondo, la World’s Top 2% Scientists dell’Università di Stanford, è vincitrice di numerosi finanziamenti molto competitivi come quelli europei del Consiglio europeo della ricerca, o Erc. È stata la prima donna in Italia ad aver vinto un Erc Advanced in ingegneria e la prima donna al Politecnico di Milano ad aver vinto un Erc, sia Consolidator che Advanced. Il suo impegno sociale l’ha portata a fondare ERCinItaly Aps, ente del terzo settore che punta ad aumentare la competitività della scienza italiana.

Cos’è la bioingegneria?

È un settore molto dinamico che copre le applicazioni dell’ingegneria alla biologia e alla medicina. L’inserimento nell’artificiale della componente biologica ha ormai coinvolto tutte le macroaree dell’ingegneria, dalla meccanica alla chimica all’elettronica-informatica. Io mi occupo, in sintesi, di ideare nuove tecnologie per la manipolazione di cellule, tessuti e organi viventi al di fuori del corpo umano, cioè “organoidi” per uso terapeutico, ad esempio in medicina rigenerativa, o per sperimentarci sopra dei farmaci.

Lei ha vinto quattro finanziamenti Erc in pochi anni con dei progetti relativi coltura di cellule staminali fuori dal corpo umano. Di cosa si tratta?

Con il primo Erc Consolidator grant, nel 2014, ho lavorato alla moltiplicazione al di fuori dell’organismo di cellule staminali mesenchimali, responsabili della rigenerazione dei tessuti (questo il sito del Laboratorio di meccanobiologia). L’obiettivo era espanderle in laboratorio mantenendone le proprietà e la funzionalità. Lo abbiamo fatto alloggiandole in supporti artificiali di dimensione nanometrica, strutture simili all’ambiente fisiologico, chiamati nicchioidi (il progetto si chiama Nichoid). Dal lavoro, sono stati sviluppati tre brevetti, per ciascuno dei quali ho vinto poi un Erc Proof-of-Concept, con i progetti Nichoids, Nichild e Moab, legati allo sviluppo applicativo del nicchioide, che oggi è in commercio. I proof-of-concept sono Erc della durata di un anno e mezzo, infatti, vengono messi a disposizione di chi fa ricerca di base e ottiene risultati potenzialmente trasferibili sul mercato, proprio per finanziate il trasferimento tecnologico.

L’ultimo Erc, in corso, è più legato alla medicina e guarda all’oncologia, è così?

Si tratta di un Advanced Grant, il progetto si chiama Beaconsandegg, finanziato con 2 milioni e mezzo di euro per lo studio, sempre al di fuori dell’organismo umano, della reazione infiammatoria che porta alla fibrosi, in particolare in oncologia dove l’indurimento fibrotico è all’origine alla progressione tumorale e alla resistenza ai farmaci. Lo faremo attraverso la creazione di tecnologie innovative, basate su embrioni di pollo bioartificiali, perché i modelli sperimentali animali sono poco etici, costosi e poco efficaci per riprodurre un fenomeno così complesso. Proveremo a studiare anche l’azione di farmaci tradizionali e di terapie avanzate in questo “organismo-su-chip”, per individuarne di nuovi.

Cellule nel nicchiode

Dalle cellule staminali mesenchimali alle cellule immunitarie, dalla medicina rigenerativa all’oncologia, problemi diversi, identico approccio. Come le è venuta l’idea?

È stato durante un anno sabbatico che ho svolto come visiting all’University of Pennsilvanya, presso il Dipartimento di Paediatrics della Perelman School of Medicine e il Dipartimento di Bioengineering della School of Engineering and Applied Sciences. Fisicamente ero collocata al Children’s Hospital di Filadielfia. Ho acquisito nuove competenze, imparando a manipolare le cellule del sistema immunitario che producono la reazione infiammatoria. Ma, soprattutto, ho passato l’anno più felice della mia vita, incontrando i grandi della bioingegneria che conoscevo solo di nome.

Per quanto riguarda l’ambiente di ricerca, quali sono le principali differenze rispetto al nostro paese?

La Upenn è un’università privata, una delle otto componenti la prestigiosa Ivy League, dove c’è una disponibilità enorme di fondi per la ricerca, il carico didattico è ridotto, ci sono tutti i laboratori di cui puoi aver bisogno e il tuo vicino di ufficio è sicuramente una delle persone più competenti nel proprio settore. Ciò consente un’accelerazione notevole nell’affrontare i problemi scientifici perché la discussione delle idee è facile e immediata. Infine, non si guarda in faccia nessuno: non conta chi sei e da dove vieni, ma solo le tue idee. Se la tua attività scientifica e le tue idee sono competitive rispetto al mercato della ricerca vieni valutato molto positivamente. È la meritocrazia che si basa solo sul merito scientifico, come ho visto fare nelle commissioni per il reclutamento di nuovi ricercatori, a porte aperte, dove il candidato cerca di dimostrare che collaborerà con molti colleghi e che quindi la sua acquisizione sarà di vantaggio al maggior numero di ricercatori.

Mentre in Italia?

Le nostre università sono meno orientate alla frontiera della ricerca e ciò ostacola l’immediatezza nello scambio di idee; le università italiane sono principlamente teaching university dove si fa molta didattica e gli studenti sono molto preparati, i più preparati d’Europa, ma ciò va a discapito del tempo che noi possiamo dedicare alla ricerca. Tutta la macchina concorsuale è comprensibilmente molto burocratica, seguendo dei criteri stabiliti dal Ministero. L’aspetto positivo è la sicurezza salariale dei professori che regala assoluta libertà e autonomia intellettuale nella scelta della ricerca, non vincolata ai finanziatori.

Questa caccia ai finanziamenti è nota, anche in casi eclatanti.

Si pensi al Nobel per la medicina 2023, assegnato a Drew Wiessman della UPenn e a Katalin Karikò che dalla UPenn se n’era dovuta andare nonostante fosse una scienziata di altissima qualità perché non aveva finanziamenti adeguati. Stabilmente precaria, ha tenacemente portato avanti le sue idee. In Italia, una volta entrati in ruolo come professori universitari, lo stipendio è finanziato completamente dal sistema pubblico. Vanno reperite solo le risorse per il lavoro scientifico.

Quale sistema è più meritocratico e meno discriminante verso le donne?

In Italia, fare carriera per le donne diventa via via più difficile, ogni avanzamento diventa più complicato, anche per la presenza di poche donne nei processi decisionali. È su questo che si dovrebbe puntare per risolvere la disparità di genere. Guardando ai dati Erc, le donne sono mediamente il 30% in tutti i panels di valutazione. A livello europeo, comunque, dove i tassi di successo nell’ottenimento dei grant sono stati maggiori per i maschi nei primi dieci anni, negli ultimi cinque anni sono sovrapponibili fra maschi e femmine e la partecipazione e il tasso di successo delle donne nella vincita dei grant sono in constante aumento a tutti i livelli di seniority e in tutte le discipline.

Fare carriera per le donne diventa via via più difficile, ogni avanzamento diventa più complicato, anche per la presenza di poche donne nei processi decisionali

Il suo lab è composto da sei donne e sei uomini. Un bilanciamento perfetto, è intenzionale?

Ammetto che, agli inizi, avevo anche guardato cosa dicevano gli studi su questo tema. In effetti, i team più efficienti sono quelli con il 50% di donne e il 50% degli uomini. La parità è la condizione ottimale, per bilanciare certe criticità tipiche dei due sessi. Tanto che questa evidenza viene utilizzata anche nella composizione dell’equipaggio della stazione spaziale orbitante, quindi in una situazione lavorativa massimamente impegnativa, dove minimizzare i conflitti è fondamentale. 

Guardando alla sua esperienza, ci sono stati degli ostacoli da superare non dovuti a questioni puramente scientifiche?

Le difficoltà che ho vissuto sono da attribuire prevalentemente al profilo caratteriale e non tanto alla discriminazione di genere. Il carattere è molto difficile da cambiare, io sono una persona buona e idealista e come si dice guardati dall’ira dei buoni: se qualcuno o qualcosa mi rallenta nel raggiungimento dei miei obiettivi, non lascio correre facilmente.

Alle ragazze che amano la scienza, cosa consiglierebbe?

Qui al Politecnico, dove oltre alla scuola di ingegneria, ci sono quella di architettura e quella di design, e le ragazze ormai sono molte, ci sono programmi di mentoring dedicati a loro. Ho tre suggerimenti concreti: smettere di lamentarsi, capire dove sta il problema e affrontarlo. Se non ce la si fa, cambiare mentore o cambiare posto. Poi, siate indipendenti e abbiate la consapevolezza che il vostro destino dipende solo da voi e non dagli altri. Individuate eventuali debolezze del vostro curriculum e lavorate su quelle. Siate intraprendenti e trovate il modo di procurarvi i finanziamenti per le vostre ricerche.

Questo ha funzionato per lei?

Dopo che il rifiuto del finanziamento per il Nichoid era dipeso dalle mie lacune in biologia, in quanto ingegnera, ho fatto il test di medicina e, superato, ho frequentato un anno di corsi. Quando ho poi vinto l’Erc e la mia carriera ha preso il volo. Qui in Italia, l’intraprendenza è facilitata dalla libertà della ricerca, che consente svolte anche brusche dei propri interessi. Come quando ho annunciato al mio supervisore, Riccardo Pietrabissa, che intendevo passare a occuparmi di ingegneria dei tessuti, illuminata sulla via di Damasco dall’incontro con un docente, Andrea Remuzzi, che teneva da esterno un corso al Politecnico. Lì ho abbandonato la ricerca incrementale per lavorare alla frontiera della bioingegneria. O come quando sono partita per gli Stati Uniti per lavorare un anno con Riccardo Gottardi (in foto sotto) nel più importante ospedale pediatrico del mondo.

Manuela Raimondi con Riccardo Gottardi

Tornando agli ostacoli che si possono incontrare in accademia, anche occuparsi di biologia e medicina rigenerativa in un dipartimento di chimica può essere stato motivo di iniziali difficoltà?

Certamente altre difficoltà sono legate alla tendenza al conservatorismo e alla resistenza all’innovazione tipico dell’accademia, che è comprensibile per la fatica che si fa a creare nuova conoscenza e che motiva perché l’università si dedica molto alla ricerca incrementale. Siamo i migliori al mondo ad approfondire quello che già si sa. Siamo un po’ più deboli sulla ricerca radicalmente innovativa. Basta anche pensare a come è nato l’Erc, nel sangue e nel dolore, con accese discussioni in commissioni in cui gli universitari erano contrari a dedicare un notevole budget di fondi europei alla ricerca di frontiera.

Come si è avvicinata alla scienza?

Una passione che ho sempre avuto, fin da quando mi facevo regalare delle bambole il più sofisticate possibile, come la Bambola Michela, la prima parlante, solo per poterle smontare e vedere come funzionavano gli ingranaggi. Crescendo, sono passata direttamente ai giochi più tecnologici. Con il Vic20 e il Commodore64 ho imparato a programmare in basic da sola. Divertentissimo. La stessa gioia profonda che non so spiegare e che provavo da bambina esplorando i componenti della Bambola Michela è la stessa che provo oggi montando un bioreattore per colture cellulari. È stato naturale iscriversi a ingegneria.

La stessa gioia profonda che non so spiegare e che provavo da bambina esplorando i componenti della Bambola Michela è la stessa che provo oggi montando un bioreattore per colture cellulari

Bioreattore Moab per la coltura di cellule

Affrontare problemi di ricerca dall’importante ricaduta medica è stata una svolta?

In realtà, ho scelto ingegneria meccanica per il suo sottoindirizzo in bioingegneria. La malattia di mia madre, che ha passato la vita in sedia a rotelle, deve avermi dato forse inconsciamente la spinta a dare un contributo nel campo della medicina. Dopo gli studi ho lavorato tre anni nell’industria, ma non era per me. Ho iniziato un dottorato, così sono ritornata in accademia senza più lasciarla.

I suoi genitori l’hanno mai influenzata?

La mia mamma ha lavorato come insegnante di lingua inglese al liceo, mio papà come imprenditore. Mia sorella è anche lei nel settore imprenditoriale. Nessuno scienziato in famiglia, però i miei genitori mi hanno assecondata. I miei figli, Lorenzo di quasi 23 anni e Anita di quasi 17 anni, al momento non amano l’ingegneria come i loro genitori. Lorenzo studia matematica pura e sta per andare un periodo alla Sorbona. Anita frequenta il liceo artistico ed è uno spirito umanistico. Li sosteniamo senza interferire, anche perché non ho ancora visto una persona molto appassionata di qualcosa che non riesca a realizzarsi. Chi decide del proprio futuro sulla base di criteri diversi dalla passione e dalla curiosità, magari guardando solo al guadagno, viene poi comunque superato nella carriera da chi ama quello che fa.

Non ho ancora visto una persona molto appassionata di qualcosa che non riesca a realizzarsi

Perché l’esigenza di istituire ERC in Italy di cui sei fondatrice e presidentessa?

È un’associazione non profit che raccoglie i vincitori di Erc italiani per nazionalità o istituzione, in tutte le aree disciplinari, geografiche, e in tutti i livelli di anzianità. L’obiettivo è aumentare la competitività per ottenere più finanziamenti per la ricerca fondamentale e di frontiera. Bisogna riportare in Italia gli italiani che hanno vinto un Erc all’estero e sostenere i ricercatori che, in quanto vincitori di Erc, hanno già dimostrato la propria competitività, garantendo loro chiari percorsi di carriera. Bisogna anche formare i giovani ricercatori italiani per renderli competitivi sull’ottenimento di finanziamenti europei, attraverso bandi adeguati per il finanziamento nazionale. Volendo quantificare i fondi europei messi a budget, parliamo di miliardi di euro all’anno. Il tasso di successo medio degli italiani che applicano dall’Italia (5-6%) è circa la metà di quello medio europeo, e un terzo di quello tedesco. Questo significa, in termini economici, una tragica perdita per il paese, che contribuisce ai fondi e ne beneficia meno degli altri paesi europei.

Perché è importante?

L’ambiente della scienza è cambiato, non si lavora più da soli e si compete a livello sovranazionale. Siamo a disposizione come interlocutori istituzionali di Ministero e chi decide le politiche della ricerca, per diffondere meritocrazia e trasferire le best practice  internazionali di assegnazione di fondi che favoriscano la ricerca competitiva di qualità in Italia. Non voglio lasciare ai miei figli Lorenzo e Anita, e a tutti gli altri miei figli professionali che fanno ricerca con me, gli stessi problemi che ho vissuto io. Le cose si possono cambiare in meglio. Noi di ERCinItaly vediamo le istituzioni come nostre alleate in questa battaglia, non come la controparte.

Non voglio lasciare ai miei figli Lorenzo e Anita, e a tutti gli altri miei figli professionali che fanno ricerca con me, gli stessi problemi che ho vissuto io. Cambiare in meglio si può

Lei avrebbe potuto restare negli Usa, trasferendo la famiglia. Perché darsi tanta pena?

Per prima cosa, qui c’è la libertà intellettuale che è ancora considerato il valore prioritario nella scienza. Dopodiché, il mondo sta cambiando in modo rapidissimo e non è possibile fare previsioni: ad esempio, anche nella patria della competizione sfrenata, come gli Stati Uniti, si diffondono modelli che accomodano profit e non profit, si valuta il posizionamento sociale e ambientale di aziende per la concessione di prestiti. L’unica certezza che resta è quella del valore sociale della scienza e della ricerca, soprattutto quella di base, principale motore di crescita culturale ed economica di un paese. Se la ricerca è un albero, quella di base, curiosity driven, ad alto rischio ed elevato tasso di fallimento, ne rappresenta le radici e il fusto. I frutti rappresentano i risultati della ricerca, che applicati, consentono l’ultimo passaggio verso l’innovazione, motore di sviluppo del paese. O preferiamo arretrare, perdere competenze e vedere i nostri ragazzi costretti a innovare lontano?

Scheda: Donne e Erc

I dati ufficiali sulla partecipazione delle ricercatrici e l’ottenimento dei grant Erc sono a disposizione sul sito del Consiglio europeo della ricerca qui. In sintesi, si vede che:

1) a livello europeo, le donne che applicano all’ERC sono circa il 30% del totale nei bandi Junior (StG e CoG), solo il 20% nei bandi Senior (AdV);

2) le donne sono mediamente il 30% in tutti i panels di valutazione ERC;

3) a livello europeo, le donne che vincono l’ERC sono circa il 30%. Le donne applicano e vincono maggiormente nelle Social Sciences and Humanites (40%), meno nelle Life Sciences (30%) e si raggiunge il minimo nelle Physical Sciences and Engineering (20%). Dimostrando che permane il noto problema culturale della ridotta partecipazione delle donne alle discipline STEM;

4) a livello europeo, i tassi di successo nell’ottenimento dei grant sono stati maggiori per i maschi nei primi dieci anni, mentre sono sovrapponibili fra maschi e femmine negli ultimi cinque anni;

5) a livello europeo, la partecipazione e il tasso di successo delle donne nella vincita dei grant ERC sono in constante aumento a tutti i livelli di seniority e in tutte le discipline; 6) a livello italiano, il tasso di successo delle donne è identico a quello degli uomini, a tutti i livelli di seniority. Purtroppo, il tasso di successo medio degli italiani che applicano dall’Italia (5-6%) è circa la metà di quello medio europeo, e un terzo di quello tedesco.

Foto di apertura di Gerald Bruneau, tutte le altre foto di Manuela Raimondi

Di seguito le altre interviste:

Ragazze, inseguite i vostri sogni e avrete forza e leggerezza d’animo (Silvia Priori)

Basta con gli stereotipi. Ragazze, non rinunciate alla bellezza della matematica (Gligliola Staffilani)

Ragazze, siete brave e vi meritate un futuro nella ricerca (Lorella Battelli)

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