Elezioni Sardegna

Soru: «Voglio riportare in Sardegna i giovani emigrati per studio o lavoro»

Il fondatore di Tiscali scende in campo per le prossime elezioni regionali dell'Isola, in programma il 25 febbraio. Parla di sanità e politiche sociali, di lavoro e sviluppo, ma anche dell'autonomia differenziata che considera la negazione del principio di solidarietà

di Luigi Alfonso

È destinato a far parlare di sé. Renato Soru, imprenditore originario di Sanluri (Cagliari) conosciuto per aver creato Tiscali e altre iniziative di successo, ha preso tutti in contropiede proponendo la sua candidatura per le prossime elezioni regionali che si terranno in Sardegna il 25 febbraio 2024. La sua nuova discesa in campo spacca l’elettorato di centrosinistra, visto che il M5S e buona parte del Pd propongono la pentastellata Alessandra Todde. A Soru non chiediamo di analizzare i motivi di questa decisione, piuttosto di anticiparci qualcosa del suo programma per quanto riguarda le tematiche care a VITA.

Il settore sanitario e delle politiche sociali è stato maltrattato, negli ultimi cinque anni. Molti sardi rinunciano addirittura a curarsi. E la riforma sanitaria non convince tanti sardi.

È evidente che questa, al momento, sia l’emergenza più importante della nostra Isola. In quest’ultima legislatura è successo davvero di tutto. Si è portata avanti con forza, direi quasi con prepotenza, l’ennesima riforma del settore. Perdendo tempo in mille discussioni, anziché concentrarsi sui bisogni e sul diritto alla salute dei malati. Noi però abbiamo le idee chiare e pensiamo che la riforma più importante da fare sia far funzionare quello che c’è, senza perdere tempo in altre carte, in altre discussioni. Occorre far funzionare l’organizzazione attuale, altrimenti non verremo mai a capo di questo caos che coinvolge tutti: personale amministrativo e sanitario, pazienti e familiari.

La sanità sarda ha toccato il fondo, dopo aver raggiunto ottimi livelli in passato.

Bisogna fare un grande investimento sul personale della sanità. Perché è vero che sono importanti le infrastrutture, i grandi ospedali, ma sono altrettanto importanti le donne e gli uomini che lavorano in questo settore: medici, infermieri, Oss, amministrativi. Dispiace che, proprio nei giorni scorsi, il Tar Sardegna abbia annullato l’ultimo bando per l’assunzione di 118 nuovi infermieri. Persone che aspettavano un lavoro e alle quali è stato negato l’accesso all’occupazione di cui avrebbero beneficiato i malati. E tutto questo per un bando fatto male. Occorre investire anche nella formazione e nella stabilizzazione di tanti precari. Le assunzioni servono, lo dicono i numeri, ma vanno fatte bene. Anche pescando dalla penisola e dall’estero, se occorre. Sono state fatte le prime assunzioni di personale medico proveniente da altri Paesi, forse bisognava farlo prima e in misura maggiore. Bisogna puntare su politiche speciali per colmare il vuoto, richiamando al lavoro in maniera volontaria i medici già andati in pensione. Oppure, come è stato fatto in altre regioni, consentire agli specializzandi di iniziare a lavorare sin dal primo anno di specializzazione nei reparti ospedalieri o come medici di Medicina generale nelle guardie mediche. Dobbiamo mettere al centro l’investimento sulle persone. E poi puntare davvero sulla cosiddetta medicina territoriale, portando i servizi il più vicino possibile a casa dei malati e potenziando l’assistenza domiciliare integrata dei pazienti. Questo necessita del completamento della transizione digitale e del fascicolo sanitario, con l’obbligo di aggiornarlo costantemente. E poi nuove attrezzature di telemedicina che evitino gli intasamenti dei Pronto soccorso. Infine, dobbiamo tornare a quella che è stata un’esperienza importante di integrazione tra le politiche della salute e le politiche sociali.

(foto Stefano Anedda)

In questo può svolgere un ruolo importantissimo il Terzo settore, che in Sardegna è abbastanza attivo ma poco considerato dalla politica. Perché non si sfruttano appieno le grandi competenze che ha maturato nel tempo?

Là dove c’è povertà (economica, culturale, educativa), si annidano maggiori esigenze di salute e assistenza. Ci sono maggiori situazioni di precarietà. In passato ci inventammo per la prima volta i percorsi sociosanitari perché avvertimmo il bisogno di programmare nei diversi distretti sanitari e nelle Asl adeguate politiche integrate. Credo che sia stato un bell’esempio di programmazione dal basso, perché vi hanno partecipato medici e servizi sociali dei rispettivi territori: sono stati capaci di disegnare, in maniera personalizzata, i percorsi necessari sulla base di un’analisi dei bisogni reali. Oggi tutto questo si è perso, si è tornati a centralizzare tutto prevedendo misure standard: ora sono i bisogni a doversi adeguare. È un paradosso.

Programmazione dal basso, dice lei. In questa legislatura è mancato l’ascolto, il confronto con le parti sociali e con i cittadini. Sappiamo bene che lei è un decisionista per carattere, però non si può prescindere da quel passaggio.

Intanto, parto da una considerazione: in materia di politiche sociali, in Sardegna abbiamo una legge vecchia che dev’essere rivista, superata, e deve favorire quei processi di programmazione e sussidiarietà verticale attraverso le politiche locali ma anche le organizzazioni di volontariato e le cooperative sociali, cioè tutto il mondo del Terzo settore che svolge funzioni che sono parte integrante del dovere costituzionale di garantire il diritto alla salute dei cittadini. Dobbiamo promuovere una partecipazione vera e non ancillare del Terzo settore, il quale svolge dei compiti che lo Stato non è in grado di portare avanti con personale proprio. Si è detto in passato che fossi un decisionista. È un termine che non mi piace. Ma è vero che mi sono preso sempre la responsabilità di dire sì, e anche di dire no in maniera esplicita quando occorreva. I no sono importanti quanto i sì. Bisogna decidere con chiarezza. E mi sono preso la responsabilità e il piacere di ascoltare. Oggi non esiste più il confronto con le parti sociali: quando ho presieduto la Regione Sardegna, in passato, era consuetudine confrontarsi in maniera approfondita con le organizzazioni sindacali e del Terzo settore e con le parti datoriali prima di predisporre la legge finanziaria. Il governo moderno, in un mondo che sta cambiando velocemente, necessita del superamento degli Stati centrali così come li abbiamo conosciuti fino ad oggi. Significa cedere sovranità verso l’alto in materia di politica estera, della difesa, fiscale, ambientale. Ma anche devoluzioni di competenze verso il basso, cioè verso le Regioni. Occorre portare avanti un processo di federalismo interno avviato a suo tempo, con maggiori responsabilità degli enti locali. Lo stesso discorso vale per la sussidiarietà: c’è un mondo non profit fatto di lavoro, anche altramente professionale, che ha una parte di idealità e volontariato ma anche di competenze. È una grande ricchezza per lo Stato e le nostre comunità.

(foto Dietrich Steinmetz)

I giovani continuano a scappare: per lo studio e per il lavoro. Raramente, però, ritornano in Sardegna. Lei ha un piano in proposito?

Sì, ho un piano per richiamarli e dire loro che la Sardegna intende voltare pagina e metterli al centro dei processi di sviluppo, con i loro saperi, i talenti, le competenze. Dobbiamo essere capaci di valorizzarli con criteri meramente meritocratici, fuori dalle conoscenze, dai familismi, dalle amicizie. A questi giovani vogliamo dare l’opportunità di avviare le loro imprese, nuove attività in un mondo che è molto cambiato e premia il talento, la conoscenza, la capacità di intraprendere. Anche in Sardegna possono essere creati nuovi posti di lavoro stabili e ben remunerati. Di recente abbiamo partecipato a un dibattito con tantissimi giovani sardi che risiedono all’estero, collegati in videoconferenza. Uno di loro ci ha detto una cosa che fa riflettere: «È vero che viviamo all’estero ma ogni giorno ci informiamo su ciò che accade nell’Isola. Non considerateci fuori, in tanti siamo pronti a rientrare se ci sono le condizioni. E comunque, molti lavori possono essere svolti ormai da remoto». Sono giovani un po’ meno radicati e un po’ più nomadi, capaci di vivere la dimensione europea in maniera libera. Dobbiamo metterli nelle condizioni di giocare in maniera leale, fuori da favoritismi e atteggiamenti clientelari. Poi c’è tutto un mondo del lavoro agile che non è più legato alla singola scrivania ma alla testa di ciascuno e al proprio pc.

Ultimamente si è un po’ spento il dibattito sull’autonomia differenziata, che ora è approdato in Senato. Che cosa pensa di questo tema?

Penso tutto il male possibile, è la negazione del principio di solidarietà così ben definito nell’articolo due della Costituzione, cioè il dovere indissolubile della solidarietà economica, politica e sociale del nostro Paese. Un principio che sembra messo da parte dall’idea che chi ha di più pretende di più, e sempre di più cercherà di fare per conto suo con una differenziazione di diritti e di destini invece che condividere un unico destino nazionale. Per la Sardegna e le altre Regioni a Statuto speciale, poi, è esattamente la negazione di quello che era un punto fermo della Costituzione del ’48, cioè l’esistenza di alcuni territori dell’Italia che avevano e hanno un regime particolare: una specialità dovuta a ragioni culturali, linguistiche, geografiche, storiche e anche alla necessità di maggiore autonomia per garantire processi di sviluppo e di superamento della povertà, come nel caso della Sardegna. Essere tutti speciali significa che nessuno è speciale, proprio in un momento in cui la nostra Isola ha bisogno di riaprire un confronto con lo Stato e assumere le responsabilità necessarie per il mondo di oggi, in campo energetico, dei trasporti, in materia di scuola, dimensionamento scolastico, gestione dei beni culturali, e così via. La Sardegna ha bisogno di aumentare la propria specialità e non di vedersela cancellata.

Credits: la foto d’apertura è di Gianluca Vassallo

(foto Salvatore Sechi)

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