Mondo

La speranza in un filo da maglia

Già durante la guerra le ong avevano avviato il lavoro di molti atelier, a scopo più che altro “terapeutico”. Poi è arrivato un progetto della Banca mondiale. E ora i pullover di Amela Vilic hanno sus

di Paul Ricard

«Se devo morire, che io sia almeno ben vestita». Così pensava Amela Vilic durante l?assedio di Sarajevo, ogni mattina. «Era la mia sfida. La mia personale protesta contro la stupidità di questa guerra. Ai cecchini che, dalle colline, mi guardavano dai loro mirini, volevo urlare che noi, i bosniaci, siamo gente di cultura, non degli animali da abbattere. Il mio abito preferito nei giorni di guerra aveva dei pois rossi, era davvero stravagante…». Amela Vilic è stilista. E quel vestito a pois se lo era disegnato. È sopravvissuta alle bombe e ai cecchini. E oggi, nei giorni della pace fragile e debole, Amela continua a creare abiti. Ma niente è più come allora. Il suo lavoro fa ormai parte di una formidabile catena di solidarietà con le donne rifugiate di Bosnia. Quelle che hanno perduto tutto: marito, figli, casa, radici, lavoro. Amela disegna pullover e mantelli che poi queste donne realizzano. Per vivere.

Lavoro a maglia, con tutta la mia anima
Insieme semplici e sontuosi, questi vestiti interamente fatti a mano sono stati presentati nel corso di una grande sfilata promossa dall?Unesco a Parigi poco prima del Natale scorso. Quella di Amela è la storia di un progetto generosamente tessuto da più mani. «Io lavoro la maglia con tutta la mia anima», è una frase che Ajka ripete più volte. Ha trent?anni, un viso lungo e pallido, degli occhi vivi. Sui capelli non porta il tradizionale copricapo delle contadine bosniache: è un segno della sua giovinezza e della sua emancipazione. Ajka ha vissuto in un campo profughi nella periferia di Tuzla. In baracche di legno costruite in tutta fretta. Un campo che non aveva nulla di sinistro, piuttosto era soffocante. Ajka ha tre figli, il più piccolo aveva 20 giorni quando nel novembre 1993, sotto una tempesta di neve, la guerra cominciò. «I tank sono entrati nel villaggio, le granate sono cominciate a piovere. Pochi secondi dopo ho visto la casa accanto alla mia crollare. Un soldato dell?Onu correva con in mano la testa di un bambino. Dietro lui, la mia giovane vicina, Safia, distrutta dal dolore: nelle sue sue braccia i resti del corpo di suo figlio. Decisi subito di fuggire».
Ajka è sopravvissuta grazie alle organizzazioni umanitarie e ai loro aiuti. Nel luglio ?95 ha ritrovato suo marito e oggi tutta la famiglia si è ricomposta. Ajka è tra le più fortunate, le altre donne piangono tutte qualcuno. Come andare avanti in un Paese così ferito dove, ufficialmente, il 50% della popolazione attiva è disoccupata? Le cifre ufficiose ma forse più reali parlano di una quota di disoccupati vicina al 90%.
In questo progetto, cui partecipa anche la Banca mondiale, Ajka è stata scelta per la sua maestria con i ferri da maglia e quelli da uncinetto. È lei ha realizzare i prototipi disegnati da Amela, la stilista. Per Ajka i suoi ferri sono la faccia più concreta della speranza. La possibile fine delle umiliazioni e dell?assistenza. Se i suoi pullover e mantelli in lana saranno richiesti in molti Paesi occidentali potrà mantenere la sua famiglia con il suo lavoro e senza più l?aiuto umanitario.
Il lavoro è un?attività tradizionale delle donne bosniache. Per questo già durante la guerra molte organizzazioni non governative avevano riunito molte donne traumatizzate in atelier per un lavoro comune. Le mani occupate a sferruzzare insieme, le mani di Nura, Nezira, Hurija e Samira, riuscivano a esteriorizzare i loro incubi. Ed era frequente sentirle scoppiare in singhiozzo. Era il periodo del lavoro a maglia terapeutico che durò sino al 1995. Poi, proprio in quell?anno, Maria Nowak, economista della Banca mondiale, in un viaggio in Bosnia si imbatte in queste sedute di lavoro comune. Subito l?idea: «Trasformeremo il lavoro a maglia in un occupazione per vivere, in una risorsa economica. Bisogna che queste donne passino dal lavoro terapeutico per guarire dal passato al lavoro per immaginarsi il futuro». Maria Nowak s?accorge subito che le maglie prodotte dalle donne sono invendibili. Non c?è mercato in una Bosnia piegata dalla guerra. E l?Europa occidentale non avrebbe mai comprato questi maglioni dai colori troppo gridati e dalle forme troppo rustiche.

Si muovono l?Unesco e la Banca mondiale
Una considerazione che non scoraggia l?economista. Contatta subito Li Edelcoort, ?scopritrice di tendenze? e fondatrice di una associazione, Heartware, che ha per obiettivo aiutare gli artigiani del mondo. Nasce così l?obiettivo di mettere a punto una strategia per vendere i prodotti di lana delle donne bosniache. Quando la notizia del progetto arriva a Sarajevo, trova entusiasta la stilista, Amela Vilic. Comincia a disegnare su carta i primi modelli. Si mette in contatto con Heartware che le parla del mercato europeo. Amela vuole fare una scommessa: creare capi di abbigliamento in lana che siano molto di moda pur rimanendo profondamente bosniaci. Amela inventa motivi che riprendono i disegni dei bassorilievi sulle tombe antiche, intreccia disegni che ricordano le basi colorate delle porte dei negozi tradizionali. Heartware spiega ad Amela come in Europa si cuciono i pullover, come vengono finiti. Amela ascolta anche Izet Curi, un amico bosniaco, sarto, da più di trent?anni a Parigi collaboratore di Jean-Paul Gaultier. Così, sotto l?occhio attento di Amela le donne con i loro aghi si mettono al lavoro.

La perplessità delle più anziane
Le più anziane dapprima ridono dei modelli di Amela. «Sono maglioni così piccoli che potranno metterli solo dei bambini», dicono alcune, paragonando i maglioni ai grandi gilet che erano abituate a confezionare. Battute che comunque sono segno di buonumore. Ogni giorno Amela sorveglia l?esattezza dei suoi prototipi. Qualche volta c?è qualche centimetro di troppo, altre volte le finiture non sono perfette. Amela va di casa in casa a controllare. Poi, a Parigi durante la sfilata promossa dall?Unesco, Jean-Paul Gaultier si dice interessato ai maglioni bosniaci. Le boutique Esprit anche, come Hugo Boss. Non è che l?inizio, Maria Nowak ne è convinta: grazie a un prestito le donne in queste settimane hanno potuto comprare una macchina per la maglieria. Ora potranno confezionare un maglione al giorno, rimborsare il prestito. E, infine, ritrovare fierezza e dignità.

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