Welfare

La lunga maratona di Andraous

Questa settimana vi propongo una lettera di Vincenzo Andraous, oggi noto per il suo instancabile impegno informativo sul pianeta carcere.

di Cristina Giudici

Lo spettacolo teatrale di cui sotto riferisce è la storia della sua vita, dei crimini commessi e del carcere, storia che, usando una metafora definisce una ?maratona?. Con la sue parole sembra voler dirci: “Assassini non si nasce e soprattutto assassini non si muore perché tutti gli uomini cambiano”. In ogni caso lascio a voi lettori ogni giudizio.

Il portone si è chiuso alle mie spalle, eppure sono sereno. Dopo qualche giorno di libertà, ora sono nuovamente nella mia cella, ma qualcosa è cambiato. Sono stato invitato a portare in scena un mio spettacolo teatrale e svolgere un dibattito con alcuni studenti a Milano.
Mi sono presentato sul palcoscenico in tuta e la mia voce ha iniziato a narrare: “Avevo tredici anni e già cominciavo a intuire cosa voleva dire vivere in povertà; senza stupore, giunse il primo arresto, mi portarono in un carcere per minorenni…”. Le mie gambe volano sul tapis roulant, il sudore cola sul mio viso, i pensieri cavalcano le parole e improvvisamente s?incontrano con tanti altri pensieri sparsi nella platea, scossa da un?emozione forte. Corro questa maratona con il cuore fra le mani, intravedo nelle mie mani il testimone, non l?uomo o il detenuto. Sono qui per rappresentare un testo che tanti giovani mi hanno richiesto, ma inaspettatamente la storia della mia storia scivola oltre il mio sguardo, “i braccetti della morte all?inizio erano solo tre in tutt?Italia, anni di lucida follia, di rivolte, di silenzi assordanti…”. Scendo dal tapis roulant con la consapevolezza di quanto questa maratona sia una corsa difficile e massacrante che recide la volontà. Osservo i loro volti, i movimenti nervosi sulle poltrone; odo piccole parole tenute strette fra le labbra. Non posso fermarmi proprio adesso, aspetto una voce: “Dai papà, corri ti aspetto al traguardo”. Con un balzo sono nuovamente sul tappeto, un corpo a corpo. Sono avvinghiato alle illusioni già morte. No, lo sconforto, il pentimento per ciò che si è fatto, che si è stati e si è divenuti, non può significare l?abbandono della vita. I ragazzi delle prime file non mi consentono di riprendere il fiato, ho il desiderio di porre fine a a questa immane fatica, rincorro la dottrina delle miserie che mi porto addosso, ma che forse può infondermi un significato nuovo: “Quanti muri ho scavalcato e quanti ostacoli ci sono ancora da superare”. Il terreno pesante rende difficile la corsa, mi sento un veterano di una guerra che non è mai stata mia, “sopra la mia testa le nubi disegnano volti che cambiano, ho l?impressione di aver riconosciuto il pizzo del Cristo…”. Non chiamo mai per nome quell?Amico, conosco le mie stanchezze, non lo chiamo mai per nome, neanche quando il suo silenzio si fa ostinato e le mie domande si moltiplicano. Corro, la meta si avvicina, non è più solo uno specchio che mi sono costruito a mia misura per troppo tempo. Ora sono di nuovo in cella e ricordo quello studente che, alla fine mi ha detto: “Esco provato da questo teatro perché mi hai trasmesso i tuoi sentimenti, ciò che provi dentro il carcere e in questa vita, mi hai creato dei quesiti a cui non potrò sottrarmi”.
Vincenzo Andraous

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