Anteprima magazine
Il food modello “economia circolare”: meno spreco, più benessere
Sono in aumento le imprese della filiera alimentare che hanno preso la strada della sostenibilità. Una scelta che rende anche in termini economici. Ecco alcuni casi esemplari selezionati dalla vicepresidente della commissione Agricoltura e prima firmataria della legge "antispreco", Maria Chiara Gadda
Ènato prima l’uovo, o la gallina? Questo paradosso filosofico che tiene banco da secoli, è perfetto anche per descrivere il dilemma che ruota attorno allo spreco alimentare.
Le statistiche indicano che oltre che nelle case private è lungo l’intera filiera produttiva e commerciale, dal campo alla tavola che si spreca di più. Non è un mistero che il sistema produttivo utilizzi la leva della sovrapproduzione e del marketing per gestire i prezzi o per sollecitare sempre nuovi bisogni, più o meno superflui. Ci siamo talmente assuefatti all’abbondanza, all’apparenza estetica degli alimenti, da non poterne quasi più fare a meno nei criteri di scelta.
Talvolta l’abbondanza è persino reazione ad un retaggio culturale di emancipazione dalla povertà. Si accendono addirittura i mutui per banchetti di nozze principeschi con decine di portate che devono soddisfare il commensale e dare buona reputazione agli sposi.
Il nostro stile di vita è assai cambiato nel corso del tempo insieme alle evoluzioni lavorative, demografiche, sociali. Rispetto ai nostri avi, non è detto che si abiti vicino al luogo di studio o di lavoro. Consumiamo maggiormente fuori casa per motivi professionali, per svago, per necessità. Abbiamo meno figli, e sempre più persone vivono da sole. Le monoporzioni possono aumentare da un lato gli imballaggi, ma anche essere una soluzione antispreco.
La filiera agroalimentare ha iniziato giustamente a porre più attenzione alle diverse esigenze dei cittadini in termini di salute, intolleranze e allergie, regimi alimentari legati a orientamenti religiosi o a scelte di tipo etico. Sui grandi numeri di una mensa scolastica o di un evento internazionale, seguire tutte queste variabili allontanandosi dalla standardizzazione può però comportare diseconomie di scala e difficoltà nella gestione degli alimenti. È cambiata persino la dimensione spazio-temporale del nostro rapporto con il cibo. Internet, le moderne modalità di conservazione e trasformazione, e la tecnologia in generale, hanno ampliato le possibilità di accesso agli alimenti in termini di varietà, di canali di approvvigionamento e tempi di consumo.
Nei Paesi in via di sviluppo, non a caso, l’assenza di tecniche di conservazione, di infrastrutture, di pratiche agronomiche moderne, è causa di perdite e sprechi soprattutto nei primi anelli della filiera. Insomma, la maggiore mobilità delle persone e dei beni, i più ampi spazi di libertà e di espressione, i mutamenti positivi e negativi della società, lo sviluppo scientifico e tecnologico, si riflettono tutti nella complessità del sistema agroalimentare. Anche altri fattori, indipendenti dalla volontà dagli attori in gioco, possono influire notevolmente sulla capacità del sistema di generare ingenti quantità di eccedenze a rischio spreco. Pensiamo agli impatti degli eventi atmosferici estremi sulla qualità e sulla resa delle produzioni, ma anche sulle abitudini di acquisto dei cittadini. La data di scadenza dello yogurt nel punto vendita non si ferma di fronte a una nevicata.
La pandemia, con la chiusura prolungata di mense, bar, ristoranti, ha generato ad un certo punto eccedenze enormi di alimenti freschi e freschissimi. Nella quotidianità di un mondo imperfetto, dobbiamo anche saperci confrontare con l’errore umano, con i difetti di produzione, con gli ordini cancellati, con la difficoltà delle persone a distinguere tra data di scadenza (termine ultimo di consumo per non correre pericoli per la salute) e termine minimo di conservazione (la data fino alla quale il prodotto alimentare conserva le sue proprietà specifiche in adeguate condizioni di conservazione. Prevede l’indicazione “da consumarsi preferibilmente entro il …”).
Che fare allora di fronte a una tale molteplicità di casistiche? A chi compete prendere in mano la situazione? Siamo davvero destinati a subire i costi, le inefficienze, le disuguaglianze dello spreco? Basta aprire gli occhi per scoprire che gli ultimi anni hanno visto un’accelerazione senza precedenti nel campo dell’economia circolare, nel dibattito pubblico e sul fronte legislativo. Le eccedenze, persino gli scarti e gli sfridi di lavorazione, possono diventare preziose materie prime e opportunità stabile di sviluppo. Con la legge antispreco, la 166 del 2016, i beni che per diverse ragioni perdono valore commerciale (ma non salubrità, sicurezza alimentare e bontà) possono trovare nuova vita addirittura nella rete della solidarietà sociale. La donazione nasce da un atto di carità e amicizia, ma è anche un modo per allungare il ciclo di vita di un prodotto.
Il modello economico lineare, quello usa e getta per intenderci, è semplice. Estrai, produci, distribuisci, consuma, smaltisci. Ma ha il fiato corto, appesantito dai suoi limiti e costi. L’economia circolare è un universo articolato, che ha saputo trovare più ricette per competere sul mercato. Tutte le migliori esperienze sono uniche, ma allo stesso tempo esistono alcuni tratti comuni che ne disegnano il substrato culturale e che vale la pena valorizzare. L’economia circolare si alimenta nelle relazioni, nelle collaborazioni inaspettate tra profit, non profit, istituti di ricerca. Sviluppa competenze, nuove professionalità, fantasia, innovazione di prodotto e di processo. Instaura un diverso rapporto tra impresa e cittadino-consumatore nell’ottica di una collaborazione win-win. È essenziale che le imprese inizino a raccontare e rendicontare la sostenibilità nelle sue diverse sfaccettature, perché questo accresce la consapevolezza della comunità. L’importante è che non sia marketing, bensì prassi strutturale e non episodica nelle pratiche aziendali. Lo ricordavo all’inizio, sprechiamo tutti. Cittadini e imprese. Da nord a sud, da est a ovest. Grandi e piccoli. Agricoltori e supermercati, pasticcerie e mense. Ma questo è solo un lato della medaglia. Proviamo a girarlo. Con un assaggio di buone pratiche. Spesso ci si concentra sulla distribuzione, per una volta proviamo a guardare cosa avviene all’inizio e alla fine della filiera commerciale.
“Brutte ma buone”: le patate identitarie della Sila al produttore rendono dieci volte di più
Le patate fecero la loro prima comparsa in Europa intorno alla seconda metà del 1500. Accolte con diffidenza, i tuberi più famosi entrano a pieno titolo nell’alimentazione umana ben due secoli dopo. Quello che si diceva “il pane dei poveri”, oggi fa parte di molti gustosi piatti della tradizione gastronomica. Il settore primario subisce maggiormente gli effetti dei cambiamenti climatici, e sta diventando sempre più costoso e competitivo produrre. Le perdite in campo possono essere determinate dai danni del maltempo, oppure da prezzi di vendita troppo bassi che rendono più conveniente lasciare a terra il prodotto. Non è così assicurato che le patate, una volta raccolte e piazzate sul mercato, possano dare una giusta remunerazione all’agricoltore. In Calabria, il Consorzio dei Produttori della Patata della Sila Igp ha lavorato sodo per aggregare i produttori e creare un prodotto identitario ad alto valore aggiunto. Tradizione e innovazione, tracciabilità e marketing territoriale. A spreco zero, e con il valore riconosciuto al produttore raddoppiato in dieci anni…CONTINUA SUL MAGAZINE
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In apertura: Il market solidale di Progetto Arca. Foto: Daniele Lazzaretto
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