Wael Suleiman è il direttore di Caritas Giordania, una struttura di oltre 400 impiegati, 3mila volontari, 26 centri di aiuto per circa 200mila persone ogni anno. «È tutto molto complicato: non c’è pace nel medio oriente, sono 75 anni che siamo profughi in tutto il mondo». Mentre parla, Suleiman guarda nella telecamera, corpo a spigolo tra due muri grigio chiaro, un po’ sudato, stanco, anche se riesce sempre a sorridere con pienezza serena.
Qual è la situazione?
Io sto dicendo a tutti che non bisogna pensare soltanto al 7 ottobre, non dobbiamo fermarci a quell’episodio. Noi siamo nati per vivere non per morire, invece mi sembra che siamo nati solo per morire, per essere bombardati o essere profughi.
Capisco Wael, ma il 7 ottobre è un fatto tragico accaduto…
Noi dobbiamo pensare a tutto il Medio Oriente; un ragazzino da Gaza ha raccontato su Instagram che da tre mesi stanno chiamando invano le organizzazioni che lavorano per i diritti umani e allora ha detto provocatoriamente che adesso chiameranno le organizzazioni che difendono i diritti degli animali, può darsi che così qualcuno a Gaza arriverà a vedere cosa sta accadendo. Siamo tutti stanchi, qui, tanto stanchi.
Bisogna lavorare per la pace…
Dirò di più: se noi non riusciamo ad arrivare alla pace, se non riusciamo a fermare l’odio, perché non troviamo un’alternativa? Non è giusto che lasciamo soffrire tutto un popolo! Solo una minoranza vuole la guerra, allora dobbiamo cercare un’alternativa anche alla pace. Lo dico perché davvero io, noi, siamo disperati. Perché rimanere qui? Dobbiamo andare via, via da qui! Soffriamo dal 1948, anche io sono di origine palestinese: lasciamo la terra, che la prendano! La vita vale di più di tutto.
E secondo lei i palestinesi lascerebbero la propria terra così facilmente?
Ma cosa è meglio? Morire? Quando Maria e Giuseppe hanno saputo di Erode, sono scappati in Egitto per salvare Gesù. Anche noi dobbiamo pensare di salvare le nostre vite, le nostre generazioni. Io oggi, dopo 26 anni, sento tutto il peso di andare avanti con un’opera così bella e grande come la Caritas, ma siamo stanchi. Lavoriamo ogni giorno a contatto con il dolore dei siriani, dei palestinesi, degli iracheni. Persone che hanno perso tutto, anche la fede, anche la voglia di vivere. La Caritas ha un ruolo pedagogico, noi abbiamo una missione. Ma oggi siamo stanchi: siamo persone, non possiamo non sentire il dolore dell’altro. Oggi anche Dio non trova più posto nelle persone, ci sono bambini che mi guardano e mi chiedono se Dio esiste. Questo lavoro è bellissimo, ma ti mangia dentro, ti consuma le energie perché è una continua emergenza.
Non si riesce neanche a programmare un’azione di sviluppo o di pensiero sul futuro…
La gente è disperata, vuole mangiare, non sa se domani sarà viva: come si può parlare di sviluppo? Puoi farlo in Svizzera, in Germania, dove la gente sta bene. Ma qui come si fa? Nell’ultimo progetto europeo sul microcredito abbiamo coinvolto circa 20mila famiglie, ma appena finito il progetto le persone hanno venduto tutte le dotazioni materiali che avevamo dato. Oggi è diventato anche più difficile attirare i fondi, i donatori non hanno più spirito di partenariato: abbiamo la sensazione di non avere a che fare con “donatori”, ma con chi ha soldi, paga e comanda.
Se Dio è “scomparso”, immagino cosa stia accadendo ai cristiani che già erano pochi e perseguitati…
Negli ultimi 40 anni, abbiamo perso il 95% della presenza cristiana in medio oriente, lo ha detto una statistica della Chiesa coopta. Io credo che nel giro di massimo dieci anni anche quel 5% scomparirà. Fino a dieci anni fa potevamo frenare questa fuga, ma adesso dall’Egitto, dalla Palestina, dall’Iraq, dalla Giordania i cristiani stanno andando tutti via.
La Giordania si è fatta promotrice presso l’Assemblea generale dell’Onu di una bozza di risoluzione, a nome degli Stati arabi, relativa alla situazione di Gaza, garantendo l’ingresso degli aiuti e impedendo il trasferimento forzato della popolazione civile. Ma il re giordano, ʿAbd Allāh II, sta subendo sempre più pressioni interne perché si schieri contro «il nemico sionista». Cosa succederà, secondo lei?
La Giordania è oggi uno dei pochi Paesi che sta avendo un ruolo coraggioso e che resta l’unica speranza per il popolo palestinese. È l’unico paese che riesce ad aiutare concretamente e non a parole, è l’unica porta aperta per Gaza. Certo, gli israeliani hanno dato il permesso, perché bisogna passare da Gerusalemme per arrivare a Gaza, ma abbiamo una porta per gli aiuti umanitari e per l’ospedale da campo. Il re sta lavorando anche con la Francia. ʿAbd Allāh II è più forte di prima, tutto il popolo giordano è più forte di prima. Sono anni che noi giordani soffriamo accogliendo i profughi e dividendo tutto quel poco che abbiamo con loro.
A Za’atari come procede?
Sono 85mila persone dimenticate dal mondo intero. La Giordania fa quello che può, sostiene un peso morale, fisico ed economico inimmaginabile, con un debito pubblico sempre crescente per queste spese.
Di cosa ha bisogno Caritas Giordania? Sente i suoi colleghi di Gerusalemme, della Palestina, di Iraq?
Io faccio parte del Representative Council-Repco di Caritas Internationalis e rappresento 15 Caritas del medio oriente e dell’Africa del Nord. Ogni venerdì abbiamo un meeting online in cui facciamo il punto della situazione per capire come organizzare gli aiuti e gli interventi. C’è anche molto aiuto tra di noi soprattutto psicologico, umano. Ad esempio il direttore di Caritas Siria è in condizioni drammatiche, in Libano hanno così tanto sofferto la guerra che oggi neanche la avvertono più, per loro la vita “normale” è la guerra e questo è pericoloso perché si perde la coscienza della pace. Caritas Gerusalemme fa parte con noi del patriarcato latino di Gerusalemme perché siamo nella stessa diocesi. Stiamo lavorando insieme per fare arrivare gli aiuti umanitari a Gaza. Abbiamo attivato insieme un emergency team ad Amman e lavoriamo per i fratelli di Gaza.
La pace è davvero impossibile?
La pace è impossibile, impossibile. La pace è solo una parola dolce e bellissima. Abbiamo speso miliardi di conferenze e meeting in tutto il mondo ma parliamo di una pace impossibile. Noi siamo troppo deboli per fare pace, siamo troppo piccoli per fare pace. Per questo io continuo a dire che l’unica alternativa alla pace è la fuga. Meglio salvare la vita. Dio ci ha dato la vita, non importa dove la vivi, siamo nati per vivere e non per morire. Cosa è meglio? La morte ogni giorno, ogni momento, oppure la vita, anche se altrove?
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