Tecnologie digitali

Social media? Si fa presto a dire dipendenza

Quasi un giovane britannico su due autoriferisce il proprio uso dei social media come problematico. Una percezione che dipende anche dalla nostra narrazione spesso poco attenta alla robustezza degli studi. Quello che accade online non è slegato dalla vita offline

di Nicla Panciera

Quando parliamo di potenziali effetti negativi dei social media, presumiamo spesso che essi stiano causando dei danni a individui altrimenti sani e felici. Ma quanto siano una causa e quanto un sintomo non è, al contrario, ancora chiaro e soprattutto è una questione che non vede gli stessi ricercatori concordi. Al momento, ampi studi su migliaia di persone non sono stati in grado di evidenziare robuste associazioni tra il tempo speso davanti allo schermo e la comparsa di malattie mentali, nonostante la narrazione mediatica prediliga – il fenomeno è chiamato cherry picking o raccolta di ciliegie – segnalare con allarmismo i risultati di studi pur modesti o addirittura metodologicamente deboli che confermano il diffuso timore che il web covi e alimenti disagi mentali e disturbi comportamentali.

Dal canto loro, i giovani tendono a riportare relazioni pericolose con la rete, come emergerebbe da alcune analisi, per ora mostrate solo al Guardian, condotte dal team di Amy Orben responsabile del Digital mental health group di Cambridge sui dati del Millennium Cohort Study che monitora la vita di circa 19.000 persone nate nel periodo 2000-2002 in Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord. Secondo quanto riferito dal quotidiano britannico, raggiunta l’età di 16/18 anni, i soggetti sono stati interrogati sull’uso dei social media e, dei 7mila rispondenti, il 48% ha affermato di essere d’accordo o fortemente d’accordo con l’affermazione “Penso di essere dipendente dai social media”. Una percentuale maggiore di ragazze (57%) era d’accordo rispetto ai ragazzi (37%). Questo non significa che i rispondenti abbiano una dipendenza, puntualizzano i ricercatori, ma che percepiscono un uso problematico.


«Questo autoriferirsi addicted, oltre a non essere una misura clinicamente valida di ‘dipendenza’, è anche legato al discorso pubblico che si fa riguardo ai social: continuando a vederlo ripetuto sui media o a sentirlo a casa e a scuola, i più giovani hanno introiettato lo stare tanto sui social come dipendenza. Così come si usano i termini ansia e depressione per indicare condizioni della vita preoccupanti o tristi che ogni persona normalmente vive, così avviene per pregiudizi e stereotipi come quello che l’online fa male al cervello. Questo sta portando a una sovramedicalizzazione di stati emotivi e abitudini e anche a semplicistiche autodiagnosi» spiega la neuropsicologa Tiziana Metitieri del Meyer di Firenze, citando i lavori della psicologa di Oxford Lucy Foulkes, che si è occupata anche del ruolo delle vulnerabilità individuali e delle esperienze sociali della vita offline nel modellare la propria relazione con i social media. La Foulkes è solita denunciare quella che considera una narrazione dei problemi mentali errata e quindi incapace di rispondere ai reali bisogni dei giovani. Il rischio è quello, dice, della semplificazione eccessiva perché se è vero che mancano evidenze di un legame tra uso e malattia mentale, ciò non significa che l’effetto dell’esposizione a certi contenuti come immagini o video sia lo stesso per tutti. Il rischio sui potenziali danni derivanti dall’uso delle tecnologie digitali ha portato l’Oms a inserire la dipendenza da videogiochi nel capitolo sulle patologie mentali dell’International Classification of Diseases (ICD), un’azione su cui la comunità scientifica non ha ancora trovato basi solide, come ha denunciato tra gli altri il direttore di ricerca dell’Oxford Internet Institute Andrew Przybylski, contestando anche l’incapacità dell’Oms di portare evidenze a supporto della sua decisione.  L’uso eccessivo dei dispositivi digitali può essere una manifestazione di condizioni psicopatologiche da indagare nel loro contesto. L’interazione problematica con i social media può avere, quindi, origini e motivazioni diverse.

Per quanto riguarda la patologia, «la classificazione clinica di comportamenti patologici legati alla tecnologia digitale non è ancora ben codificata» spiega Metitieri. Agli inizi, si è assunto che la dipendenza da social media fosse analoga alle altre dipendenze, ma le evidenze mostrano che «la nostra vita è ormai inevitabilmente parzialmente in rete e quindi prescrivere l’astinenza come si farebbe con la droga o l’alcol è semplicemente impensabile e inappropriata. I processi sottostanti sono diversi». Inoltre, stanno emergendo evidenze del fatto che eventuali problematiche che associamo all’online, come il cyberbullismo o l’ansia da approvazione sociale, si presentano in soggetti che già ne soffrono o ne hanno sofferto nella vita reale. Infine, le dipendenze vanno valutate singolarmente, distinguendo le une dalle altre esattamente come si fa con quelle del mondo sociale fisico, dall’ansia da like alla dipendenza dagli altri al comportamento compulsivo da controllo degli aggiornamenti.

«Ci sono poi delle componenti tipiche della vita adolescenziale, come la condivisione di esperienze e di sentimenti, che avvengono in modo innocuo e naturale online come offline» conclude Tiziana Metitieri, che invita a non contrapporre aprioristicamente questi due aspetti, entrambi reali, della nostra vita sociale. Dopotutto, «da un’analisi sull’uso di Facebook e il benessere di quasi 950mila persone di 72 paesi diversi dal 2008 al 2019, non emergono evidenze del fatto che l’espansione globale dei social media sia associata a danni psicologici diffusi» osserva la psicologa che conclude «Non andrebbero dimenticate le grandi potenzialità sociali ed educative o l’importante ruolo di mantenimento delle relazioni sociali dei dispositivi digitali, come osservato in particolare durante la pandemia. Non va neppure trascurata l’attenzione ai contenuti che le piattaforme diffondono e la pressione sulle aziende per renderli più sicuri». Insomma, da controllare con estremo rigore sono semmai gli algoritmi pervasivi programmati per catturare la nostra attenzione e aumentare click e vendite, da cui pretendere la massima trasparenza, tanto che l’Europa ha di recente inaugurato il Centro europeo per la trasparenza algoritmica Ecat.

Photo by Robin Worrall su Unsplash («I heard recently that the average person scrolls the height of Big Ben in a day. Whilst waiting for a delayed train in Bath I spotted this line of hands on phones – all endlessly scrolling» Robin Worrall).

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