Cultura

Ritratti: l’altra faccia di Andy Warhol

Considerato il portavoce di un'America trionfante, Vita ha ricostruito il Warhol segreto, quello che ogni domenica si faceva vedere in chiesa o assiduo alla mensa degli homeless

di Giuseppe Frangi

Chi era quell’artista figlio di immigrati, assiduo frequentatore della chiesa di rito Greco cattolico di New York, e che spesso si faceva a trovare all’appuntamento della mensa degli homeless di Heavenly rest, per servire a tavola da semplice volontario? Difficile associare questo identikit a quello di Andy Warhol, il più popolare, ricco, geniale e sfacciato artista della seconda metà del secolo scorso. Eppure tutti quei dati rispondono a verità. Fanno parte, anzi, di una biografia segreta, che lo stesso Warhol, ha tenuto con significativo pudore in ombra, lontana da quei riflettori che stavano perennemnte accesi a curiosare su ogni più segreta piega della sua vita. Ora, grazie a nuovi studi e a un’esposizione, i tasselli di quel Warhol inedito iniziano a ricomporsi e a restiturci una figura soprendente. Propsio nella scorse stetimane si è chiusa a Washington un’esposizione sul tema Warhol social observer, mentre due biografie hanno ,portato elmenti nuovi: la prima di Jane Dagget Dillemberger, dedicata agli aspetti religiosi dell’arte e della personalità di Warhol, e l’altra di Michel Nuridsany, che invece è una normale biografia che però affronta la questione, così spesso tenuta soto silenzio, di questo Warhol segreto.

Figlio di immigrati
Lo scandaloso Andy in realtà si chiamava Andrew Warhola ed era il più piccolo dei tre figli di due slovacchi arrivati in America per sfuggire alla povertà del loro paese d’origine, Mikova, sui monti Carpazi, quasi al confine con la Polonia. Il padre Andrej era muratore e aveva raggiunto a Pittsburg un gruppo di compaesani che avevano aperto la strada dell’emigrazione. Vivevano in un ghetto, Ruska Dolina, costruito attorno alla chiesa bizantina cattolica di san Giovanni Crisostomo. Qui Andrew venne battezzato. E qui sin da piccolo registrò, durante le lunghe cerimonie, i mille colori degli affreschi dipinti sull’iconostasi, la parete che secondo la tradizione orientale, divideva il presbiterio dalla zona dove stavano i fedeli. La casa era piccolissima e si può vederla in un quadretto dipinto da Andy non ancora ventenne, nel 1946: Tra le mura spoglie si nota solo un piccolo crocefisso: quello che la madre aveva conservato dopo il prematuro funerale del padre. Le radici orientali spiegano anche la carnagione eternamente pallida e smunta di Warhol. Che però ricorda nel suo Diario di aver sofferto da bambino per tre volte di attacchi di un tremolio, diagnosticato come ballo di San Vito, proprio alla vigilia delle vacanze estive.

Con la mamma a New York
Quando Andrew decise di tentare l’avventura e lasciare la provincia, la sua prima preoccupazione fu quella di non lasciare sola sua mamma. Arrivò a New York, ebbe le prime commesse come grafico pubblicitario e chiamò presto sua madre a vivere con lui. Si preoccupò di trovare una chiesa vicina a casa perché la vecchia signora Warhola potesse tener vive le sue consuetudini religiosi, e la trovò a pochi isolati da casa sua, a St Vincent Ferrer, tra la 66th street e Lexington avenue. Il mondoi casalingo di Warhol era l’esatto opposto di quello artistico. La Factory, come aveva chiamato il suo grande studio, era una specie di centro sociale dei giorni nostri, dove si poteva trovare chiunque a qualunque ora, dove non c’erano chiavi né preclusioni per nessuno, dove la musica con la voce della Callas andava 24 ore su 24; la sua casa invece era un luogo assolutamente chiuso, pensato solo per garantire serenità e tranquillità a sua madre. Difficile che Warhol, finito il lavoro («lavoro dalle 10 alle 10, con molta regolarità» aveva scritto nei suoi Diari), non si facesse vedere a casa, non cenasse con la vecchia mamma, non condividesse addirittura con lei un momento di preghiera secondo le antiche abitudini slovacche.
Era sempre lui, l’artista più copertinato del mondo, il più citato, quello che teorizzava che l’unica arte era la business art, senza ipocrisie e con quella fanciullesca innocenza davanti ala cavalcata trionfale del consumismo. Ma era sempre lui, l’uomo dai capelli bianchi che tre volte alla settimana senza dar nell’occhio a nessuno si rifugiava nella preghiera, in ginocchio, sotto le stesse navate che per tanti anni erano state il rifugio per sua madre. Una recente testimonianza del padre domenicano che era parroco a St. Vincente Ferrer, father Sonny Matarazzo, conferma che Warhol era assiduo ogni domenica, anche se non si accostava mai ai sacramanenti. Raramente Andy parlava di questa sua devozione. Una volta, il 2 aprile 1984, nei Diari giustificò questa sua riservatezza con una scusa curiosa: «Vado da solo in chiesa perché non voglio che mi vedano fare il segno della croce al contrario, come fanno gli ortodossi (cioè portando prima la mano sulla spalla destra e poi a sinistra, ndr)». Quando morì, il 22 febbraio 1987, sul suo comodino trovarono un crocefisso e il libretto delle preghiere «for greek catholics» e sulla parete a fianco del letto una riproduzione della Madonna Sistina di Raffaello. Come poteva una stessa persona unire in sé aspetti così opposti? La prima risposta è la più semplice: Warhol aveva una psicologia elementare incapace di scartare qualsiasi cosa. Restava incantato da tutto, e ogni sollecitazione, che fosse consumistica o religiosa, aveva per lui un valore. Ma c’è un’altra possibile spiegazione.
E ha che fare con un sentimento drammatico della vita che lui stesso e poi tanta critica successiva hanno giocato a nascondere.

Il senso del dramma
L’esposizione di Washington e qualche mese prima un’altra straordinaria esposizione a Basilea hanno illuminato Warhol di una luce inedita. L’artista capace di digerire senza battere ciglio i più abusati simboli del consumismo in realtà era mosso, quasi sopraffatto da una forza opposta. Cioè da un senso di disfatta collettiva. Warhol, negli anni, si rivela un osservatore scoiale angosciato e impietoso. I suoi quadri bombardano il non senso della vita americana con la tranquilla icasticità di chi non ha discorsi da fare ma solo fenomeni da registrare. Dipinge, con una serialità ossessionante com’è ossessionante il ripetersi muto del rito, le sedie elettriche. Ma anche i suicidi, le stragi stradali, gli scontri di piazza entrano in scena sulle sue tele. È il volto oscuro di una società trionfante che Warhol racconta con la stessa tecnica con cui quella società presenta i propri trionfi di benessere. Sono racconti a una dimensione, che non chiedono mai sforzi interpretativi: lo si vedeva benissimo nella grande sala centrale della fondazione Beyeler di Basilea, dove, per la prima volta, erano stati riuniti, senza preoccupazioni cronologiche, i grandi quadri drammatici di Warhol. Difficile trovare un altro artista che abbia gettato uno sguardo altrettanto tragico e impietoso sulla civiltà occidentale. Come ha scritto Baudrillard :”E’ propriamente operazione poetica, quella di far spuntare il Nulla dalla forza del segno- non già la banalità o l’indifferenza della realtà ma l’illusione radicale”.

Il Warhol solidale
C’è infine un altro aspetto di Warhol che meriterebbe di essere indagato con attenzione. Ed il Warhol capace di costruire rapporti sociali, di offrire occasioni a un’infinità di persone, di accettare anche i rischi di esposizione a persone spesso non del tutto equilibratae: come gli accadde il 3 giugno 1968 quando Valerie Solanas, una femminista radicale, entrò nella Factory e gli sparò colpendolo allo stomaco con due pallottole. Quelle ferite all’addome condizionarono Warhol per tutto il resto della sua vita, costringendolo a portare sempre un corsetto. Ma Andy è anche il pittore che toglie dalla strada Jen-Michel Basquiat, che lancia nel firmamento un graffitaro come Keith Haring, che si diverte a realizzare opere in gruppo, senza preoccuparsi di scendere al livello di pittori meno titolati di lui. E la sua Factory, luogo perennemente aperto, è un po’ l’emblema di questa sua capacità di legare e di legarsi al destino di altri.
Ma Warhol si portò sempre dentro anche l’esperienza di dignitosa povertà dei suoi genitori a Pittsburg. Così, anche ricco, anche famoso, quando poteva si recava alla mensa degli Homeless della chiesa di Heavenly Rest. Serviva a tavola, si fermava a parlare. «Andy preparava il caffé, serviva i piatti e aiutava a pulire. Era davvero amico di questi senza amici. Amava questi dimenticati di New York e loro lo ricambiavano», racconta un testimone. Warhol non teneva segreti questi suoi gesti. Anzi, ogni tanto cercava di trascinare qualche suo rilluttante amico alla mensa dei poveri. E una volta dentro non ammetteva proteste: «Se siamo qui è perché abbiamo voluto essere qui». Poi sul diario lasciò una traccia di questa sua esperienza: «È un mondo diverso. Vedi gente con i denti brutti. E noi siamo abituati a tutta questa gente con i denti perfetti» Ma se c’è così tanta gente affamata, questo dice quanto sia orribile la realtà in cui viviamo».

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