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Missione in Iraq: “E’ un colpo di mano”

Proprio mentre gli scontri sembrano aumentare, l'Italia si appresta a prorogare la propria missione in Medioriente per decreto. Il punto di Intersos

di Nino Sergi

Il decreto legge 10 luglio 2003, n. 165, ovvero “Interventi urgenti a favore della popolazione irachena, nonché proroga della partecipazione italiana a operazioni militari” sarà discusso e convertito in legge alla Camera nei prossimi giorni. Alcune osservazioni vanno fatte, contando sull?ascolto e sulla sensibilità dei parlamentari.

Il Decreto è fatto in modo tale da far approvare in blocco decisioni che, solo alla lontana, hanno qualche attinenza le une con le altre: 1) missione umanitaria e di ricostruzione in Iraq; 2) calamità naturali in territorio estero; 3) invio di un contingente militare in Iraq; 4) partecipazione militare italiana a operazioni internazionali; 5) partecipazione italiana ai processi di pace; 6) regole amministrative e coperture finanziarie.

1. ? Colpo di mano
Già il primo capitolo mescola la Missione umanitaria e di ricostruzione in Iraq (artt. 1-4) con i più generici interventi per calamità all?estero (art. 5): e non si tratta di poca cosa perché si vuole introdurre, senza un minimo di valutazione dei pro e dei contro, una novità importante nell?ambito degli interventi di emergenza all?estero finora normalmente coperti dalla Dgcs/Mae.
?Al verificarsi in territorio estero di calamità naturali o di altri eventi di particolare gravità, che mettano in pericolo di vita le popolazioni colpite e che rendano opportuno l?intervento dello Stato italiano, il presidente del Consiglio ? dispone che il Capo del Dipartimento della protezione civile ? provveda ad approntare le necessarie operazioni di soccorso alle popolazioni colpite dall?emergenza?. L?aggiunta ?o di altri eventi di particolare gravità? di fatto stabilisce che per ogni emergenza d?ora in avanti il primo soggetto di riferimento sarà la Protezione civile.

Se la Protezione civile ha dimostrato capacità ed efficienza in Italia, ciò non vuol dire che in un contesto diverso, talvolta molto diverso, che richiede altri tipi di specializzazioni e soprattutto di particolare attenzione alle popolazioni, di rispetto delle culture e usanze locali, di valorizzazione delle capacità locali, di fedeltà ai principi umanitari di neutralità, indipendenza, imparzialità essa possa, ugualmente ed automaticamente, essere lo strumento migliore. L?esperienza in Albania a soccorso dei rifugiati kosovari ha messo in luce l?inadeguatezza, in quel diverso contesto, delle strategie e delle metodologie valide per l?Italia.

Sarebbe necessario rimandare questo punto ad un?ulteriore analisi e valutazione, inserendolo nel contesto della riforma della Cooperazione italiana che prevede il coordinamento sia delle attività di sviluppo che di quelle umanitarie e di emergenza. Nel frattempo, come già successo per l?Albania, il Kurdistan, la Turchia e recentemente l?Algeria, valgono gli strumenti legislativi esistenti che già permettono specifici puntuali interventi all?estero di esperti o gruppi della Protezione Civile.

2. ? Missione umanitaria in Iraq
Occorre esigere chiarezza. E? in gioco l?essenza e il senso vero dell?azione umanitaria, di fronte alla quale nessuna ambiguità può essere permessa. Nessuna organizzazione umanitaria potrà mai accettare che la missione prevista dal decreto possa essere definita con il termine umanitario. Si tratta di una missione a fortissima valenza politica, con un coordinamento politico-diplomatico-militare, dotato di procedure amministrative di grande autonomia, di strumenti operativi ad esso finalizzati e operazioni che solo in parte possono essere considerate aiuto alla ricostruzione. L?ospedale da campo a Baghdad dove esistono già almeno quaranta ospedali funzionanti, per esempio, non lo è. Come non lo è il consistente apparato civile non strettamente legato ai progetti di ricostruzione e quello militare per l?intelligence e la sicurezza.

Per salvaguardare i valori dell?azione umanitaria e per impedire che siano inquinati da altri obiettivi totalmente estranei al concetto, agli ideali e alla pratica dell?umanitarismo, il Parlamento dovrebbero sentire il dovere di definire la missione governativa con il suo vero nome: missione politico-diplomatica in Iraq.

L?art. 1 del decreto prevede una lunga serie di interventi nei settori sanitario, infrastrutturale, scolastico e del patrimonio culturale. La cifra stanziata – detratto il costo, consistente, della missione politico-diplomatica e della sua sicurezza – pare alquanto esigua per poter realizzare tali interventi, se non in minima parte. Il Parlamento dovrebbe esigere maggiori dettagli in merito, per non doversene poi meravigliare in sede di relazione consuntiva.

3. ? Invio in Iraq di un contingente militare
L?art. 6 del decreto autorizza ?la spesa per l?invio di un contingente di personale militare in Iraq, al fine di garantire le necessarie condizioni di sicurezza per gli interventi umanitari, favorirne la realizzazione e contribuire al processo di stabilizzazione del Paese?.

Le Ong hanno dichiarato, fin da metà aprile, di non volere né potere legare i propri interventi alla sicurezza garantita dai militari. La questione è di primaria importanza per le organizzazioni umanitarie il cui lavoro, per garantire la neutralità e l?osservanza dei principi umanitari, deve essere e rimanere indipendente da qualsiasi forza politica o militare. A ciò deve aggiungersi che in Iraq, la presenza militare della Coalizione, Italia compresa, è una presenza a cui manca il carattere della piena legalità com?è invece indispensabile per poter partecipare alle operazioni di pace.
Si chiariscano quindi le vere finalità dell?invio del contingente militare in Iraq che non sono, né possono essere, quelle di garantire la sicurezza per gli interventi umanitari.

Le Ong non hanno normalmente difficoltà, con le dovute differenziazioni, a collaborare con i militari in missioni di mantenimento o rafforzamento della pace, su mandato internazionalmente riconosciuto. Hanno talvolta utilizzato le strutture e i servizi che l?apparato militare può mettere a disposizione: trasporti aerei e terrestri, logistica, uso di mezzi meccanici, ecc. Diversa è invece la posizione delle Ong quando la presenza militare ha compiti offensivi, di occupazione e di ?imposizione? guerreggiata della pace, fosse anche sotto mandato internazionale: in situazioni del genere non vi può essere collaborazione tra umanitario e militare. E? necessaria infatti, per realizzare bene la mission umanitaria, una netta e chiara distinzione tra le due finalità che non possono e quindi non devono entrare in rapporto, anche solo nell?immaginario delle popolazioni per cui e con cui stiamo lavorando. Le popolazioni devono poter chiaramente distinguere tra operatori umanitari e militari, senza ambiguità alcuna e senza confusione dei ruoli. La netta distinzione è necessaria anche per ragioni di sicurezza, che richiedono che l?operatore umanitario non venga mai confuso né abbinato in nessun modo con il militare.

Si tratta di un punto di estrema importanza e anche di grande attualità: la nuova strategia militare considera infatti che anche l?azione umanitaria direttamente gestita dai militari debba far parte del ?mestiere?, per rendersi amiche le popolazioni, contenerne il sentimento ostile, ottenere più facilmente informazioni utili. È sempre stato così, ma ora la dimensione assunta è sempre più ampia, esplicita, talvolta concorrenziale con le stesse organizzazioni umanitarie. È in gioco la stessa sopravvivenza dell?azione umanitaria, quale dovere umano imparziale, strumento solo dell?imperativo umanitario e non di posizionamenti o tatticismi politici o militari.

Leggi il testo del decreto legge 10 luglio 2003, n. 165

  • Sul sito del Parlamento;
  • In Gazzetta ufficiale
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