Pandoro-gate
Ferragni, parla la signora della Csr: «È socialwashing»
Rossella Sobrero, fondatrice del Salone della Csr e dell'innovazione sociale, boccia senza appello l'influactivism della modella. E al non profit dice: «Diventa urgente prendere le distanze da personaggi che, grazie al patrimonio di follower, rischiano di diventare punti di riferimento sui temi sociali, senza nessuna competenza»
Rossella Sobrero è, a pieno titolo, la madrina, se non la madre, della corporate social responsibility in Italia. Non è che l’abbia inventata lei, certo, ma ha fondato la sua agenzia di comunicazione, Koinetica, oltre 20 anni fa, proprio per lavorare su questo terreno quando, insomma, l’acronimo “csr” era poco o punto famigliare e si doveva farne spesso lo spelling. Ma più di tutto, Sobrero ha il merito d’aver costruito, 12 anni orsono, animando un comitato largo – da Sodalitas alla Bocconi, da Unioncamere al Global Compact, da Asvis ai Sustainability makers – un Salone dedicato alla responsabilità sociale di impresa che, oltre a essere un raduno nazionale sulle migliori buone pratiche delle aziende responsabili, ha di fatto accompagnato e sostenuto la consapevolezza fra le aziende italiane.
Chi meglio di lei, allora, può dire una parola di senso in una vicenda, il pandoro-gate, che coinvolge aziende produttrici, Balocco, e aziende di servizi, quelle del brand Ferragni?
Sobrero, lei ha scritto di greenwashing, c’entra questa vicenda col socialwashing. Può la finalità sociale di un’azione mascherare il resto?
Il socialwashing purtroppo continua a crescere e si sta diffondendo ma da un certo punto di vista diventa più facilmente “identificabile” perché le persone e le istituzioni sono più attente.
Il caso Ferragni si può rubricare così?
Ne è l’esempio recente: qui è stato utilizzato in modo distorto un messaggio sociale per rafforzare ulteriormente la propria presenza sui social oltre che aumentare le proprie entrate.
C’è ormai un pullulare di personaggi influenti sul web che si collegano a buone cause.
Sono molti i personaggi famosi che sembrano battersi per una buona causa: in alcuni casi si tratta di esempi negativi di influactivism, parola inventata negli Stati Uniti per definire chi utilizza i social per rafforzare community numerose e sempre più attive.
Che insegnamento possiamo trarne?
Stimolare l’acquisto di un prodotto collegato al sostegno di una buona causa quando non è vero non ha naturalmente nessuna giustificazione.
Che possono fare le organizzazioni non profit?
Diventa urgente prendere le distanze da personaggi che grazie al “patrimonio” di follower rischiano di diventare punti di riferimento anche su temi sociali nonostante non abbiano il ruolo e le competenze per intervenire su argomenti spesso molto delicati.
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