Welfare

Quelle splendide otto ore d’aria

Da vent’anni le cooperative favoriscono il lavoro dei detenuti, dentro e fuori le celle. Un’arma vincente per reinserirsi nella società. Da loro, una proposta a sorpresa: come salvare l’indulto

di Redazione

I l servizio mensa nel carcere di Rebibbia di Roma, un laboratorio di imballaggi all?istituto di Canton Mombello di Brescia, una falegnameria all?ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. Sono alcune delle attività delle cooperative sociali in cui lavorano detenuti che, oltre a offrire occasioni di lavoro, considerano il carcere come contesto sociale in cui operare processi di cambiamento. Nate in sordina nei primi anni 80, hanno avuto una crescita esponenziale. Alle realtà imprenditoriali che impiegano detenuti si sono riconosciute riduzioni degli oneri sociali e detrazioni d?imposta. Il coinvolgimento del Dipartimento di amministrazione penitenziaria ha portato a rapporti di partnership trovando sensibilità in funzionari e direttori. Incoraggiato da queste aperture, nel 2001 il Consorzio Gino Mattarelli avvia il progetto Cooperazione sociale e giustizia. «Abbiamo riflettuto sul significato della sanzione penale e sul concetto di sicurezza sociale», considera Giacomo Libardi, ora responsabile delle area sviluppo di Cgm, promotore del progetto Cooperazione e giustizia. «E anche grazie alle suggestioni di Carlo Alberto Romano, docente all?università di Brescia, oggi crediamo che la funzione della pena abbia un valore di risocializzazione nel senso di offrire opportunità alle persone nel definire percorsi dell?identità affettiva, culturale, professionale e sociale. Insomma, la cooperazione sociale si riappropria di un ruolo che da tempo era stato scaricato con una sorta di delega in bianco al sistema penale e penitenziario». Al progetto di Cgm attualmente aderiscono 15 consorzi che danno lavoro a 250 persone, che rappresentano ben un quarto dei dipendenti delle imprese che lavorano per l?amministrazione penitenziaria. Cgm non è però l?unico attore ?cooperativo? presente in carcere. Una delle prime esperienze di reinserimento sociale attraverso il lavoro svolto nelle coop sociali è quella di Federsolidarietà. «Sin dai primi anni 80 abbiamo capito che il lavoro non è un fine ma uno strumento di produzione della qualità della vita», dice Beppe Pezzotti, responsabile dell?area carceri di Federsolidarietà. «Il nostro non è solo un progetto sulla persona ma anche un luogo di apprendimento permanente dove con più aiuto e con più tolleranza tutti possono apprendere metodi e abilità per vincere la competizione del mercato del lavoro, verso il quale è necessario essere sempre più aggiornati». Le cooperative che svolgono le loro attività all?interno delle strutture penitenziarie impiegano detenuti, chi invece sta scontando pene alternative come la semilibertà può uscire di giorno e lavorare in laboratori e officine esterne. Uscire dalla cella, quasi sempre sovraffollata, per recarsi in un altro ambiente a svolgere un lavoro, avere contatti con persone che vengono da fuori e guadagnare dei soldi lavorando, tutto ciò migliora il vivere in carcere ma allo stesso tempo costituisce le basi per il progetto di vita all?esterno. Questo è un momento particolare per il sistema carcerario. Indulto e indultino al momento sono fermi in Parlamento e il mondo della cooperazione sociale impegnato nelle carceri ha delle proposte alternative. «Noi chiediamo che i detenuti possano scontare gli ultimi due anni di pena facendo volontariato. La onlus garantirebbe vitto e alloggio mentre lo Stato potrebbe, come fa per il servizio civile volontario, corrispondere a ogni persona 500 euro al mese. In questo modo potremo andare incontro a coloro che vogliono la certezza della pena, ma anche a coloro che ritengono inutile il carcere. In più si alleggerirebbe il sovraffollamento e il ministero risparmierebbe circa 200 euro al giorno, che è il costo sociale per ogni detenuto», spiega Beppe Pezzotti. Ma ci sono anche altri problemi aperti, come sottolinea Giacomo Libardi: «Per i minori esiste la mediazione penale, come modo alternativo di scontare la pena, che in alcune realtà, soprattutto al Sud, va incentivato. Il piano per l?esecuzione penale esterna nei SerT per quanti sono tossicodipendenti è ancora fermo per mancanza di fondi». Carmen Morrone dura lex La legge 193/2000, meglio nota come legge Smuraglia dal nome del primo firmatario, indica una serie di norme volte a favorire l?attività lavorativa dei detenuti che è stata resa operativa dal Decreto del Presidente della Repubblica del 30 giugno 2000 n. 230, che contiene misure che riguardano le cooperative sociali e le organizzazioni di volontariato che operano in carcere. Il ministero della Giustizia ha poi emesso circolari riguardanti il finanziamento dei progetti di reinserimento nonché gli sgravi contributivi relativi alla retribuzione corrisposta alle persone detenute o internate negli istituti penitenziari, agli ex degenti degli ospedali psichiatrici giudiziari e alle persone condannate e ammesse al lavoro esterno. Oltre agli incentivi, in molte carceri le direzioni, attraverso una convenzione del luglio 2002, sono autorizzate a mettere a disposizione locali, macchinari e attrezzature per svolgere attività lavorative. L?amministrazione penitenziaria ha anche autorizzato gli istituti a dare in gestione i servizi (mensa, pulizie, manutenzione) a quelle realtà imprenditoriali in grado di garantire un corretto percorso per il reinserimento delle persone detenute.


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