Welfare

Dove io non c’ero, Amnesty c’era

Sostiene con gli incassi dei suoi spettacoli la grande organizzazione che vigila sul rispetto dei diritti umani.

di Redazione

Sarebbe stato sorprendente se non si fossero incontrati. Lui testimonial, lei associazione: Moni Ovadia e Amnesty International erano troppo simili per ignorarsi. Due tipi tosti e poco accomodanti, almeno quando si parla di diritti umani. Lo dimostra, ma non ce ne sarebbe stato bisogno, anche la cronaca di queste ore: mentre il mirino dell?associazione è fisso sul governo militare di Rangoon (Myanmar) colpevole dell?ennesima carcerazione del premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi (l?ambasciata birmana di Roma, stremata, ormai accoglie i sit-in degli attivisti sbarrando la porta di ingresso e sigillando le finestre pur di non confrontarsi con i delegati di Amnesty), le ire di Ovadia travolgono all?unisono la Bossi-Fini, “una legge discriminatoria, assurda in un Paese che si dichiara cattolico. Ricordo che il comandamento più ripetuto nel vecchio Testamento è: amerai lo straniero” e lo sceriffo padano Gentilini “un razzista geniale e volgare, capace di magnificare la purezza della cosiddetta Razza Piave senza considerare che il Triveneto è una delle aree più contaminate del mondo, non esclusi apporti negroidi”. Considerazioni talmente indigeste che gli sono valse una denuncia da parte dell?ex sindaco di Treviso. Due tipi, Amnesty e questo saltimbanco, attore e autore di teatro nato in Bulgaria 57 anni fa da famiglia ebraica costretta poi a riparare in Italia, spesso impegnati con armi diverse su fronti diversi. Due tipi che, però, per nulla al mondo, si perderebbero di vista. L?ultima occasione di incontro è stata la presentazione di un libro curato da Amnesty per sostenere la campagna contro la discriminazione (edito da Rizzoli libri illustrati): Razzismo. Il colore della discriminazione. A Ovadia è stata affidata la prefazione. L?incontro è fissato alla libreria Tikkun di Milano. Un paio di scarpe da ginnastica, pantaloni chiari e una maglietta bianca con il faccione di Groucho Marx portati con autorevolezza costituiscono l?abbigliamento di “un pericoloso sovversivo”, come provocatoriamente ama definirsi. Vita: Ovadia e Amnesty, due facce della stessa medaglia? Moni Ovadia: Il lavoro non mi permette di essere membro stabile di un?organizzazione. Allora conduco la battaglia a modo mio. Facendo spettacoli, raccogliendo fondi a favore della lotta per la libertà e contro le discriminazioni. Naturale poi che nascesse un?amicizia con quelli di Amnesty. Vita: Se non ci fosse cosa perderebbe? Ovadia: L?esistenza di Amnesty mi fa sentire in un mondo migliore. Sento di avere dei compagni di strada: gente che non chiude mai gli occhi. Senza, sarei solo. Anche se sono convinto che la guerra è persa, almeno per me. Io non vedrò l?alba, e del resto, cosa avrebbe fatto la mia generazione di tanto nobile per meritare di vedere la luce? Il nostro compito è batterci, rimboccarci le maniche per poi passare il testimone. Vita: Lei è di origine ebraica, che cosa significa essere discriminati? Ovadia: Il sentimento più sconcertante è trovare nell?altro qualcuno che non ti vede. Ti guarda e non ti vede, anche se soffriamo le stesse malattie, ci curiamo con le stesse medicine, patiamo il caldo e il freddo allo stesso modo. Vita: Nella prefazione del libro inviti il lettore “a riconoscere in noi stessi l?altro”. Come può un manager milanese immedesimarsi in un bambino soldato del Congo? Ovadia: Semplicissimo. Basta che lo adotti. Basta che lo guardi negli occhi. Vedrà che ha gli stessi sentimenti, la stessa fame, la stessa paura, la stessa allegria, le stesse possibilità mentali. Il bambino congolese parlerà con la cadenza lombarda e tiferà Milan o Inter. Vita: In Italia esiste il razzismo? Ovadia: Dopo la seconda guerra mondiale nessuno ammetterà mai in pubblico di essere razzista. Magari lo fanno in qualche discorso alla parte più plebea e feroce del proprio elettorato, ma mai in televisione. Poi c?è il razzismo implicito, quello della Bossi-Fini, che costringe masse di immigrati a fare code estenuanti per un documento o che impedisce a un figlio di vivere con la madre. Le chiamano democrazie occidentali, di fatto sono delle democraziacce opulente tiranneggiate dal dio mercato. Vita: Perché una società ricca come la nostra sente il bisogno di discriminare? Ovadia: Perché la cosa migliore per non fare i conti con se stessi è dire che la colpa è degli altri. Lo straniero ci serve per non dover provvedere alle ferite della nostra società. Il modello statunitense contiene una elevatissima cultura dei diritti civili, ma anche la pena di morte e 40 milioni di poveri. Si getta alle ortiche il diritto internazionale per bombardare Bagdad, ma da Washington non si sente mai una parola di autocritica. Vita: Si sente antiamericano? Ovadia: Non so cosa significhi sentirsi ?anti? qualcosa. Vita: Ha capito cosa è successo l?11 settembre? Ovadia: Una cosa è certa: sono morte migliaia di persone. Per questo io provo orrore. Un?altra realtà è l?esistenza del terrorismo internazionale. Dopo di che non mi sembra che il popolo iracheno si comporti come un popolo liberato, piuttosto mi sembra oppresso. In cambio è stata demolita l?idea di una legalità internazionale. Vita: Contro la guerra in Iraq ha esposto la bandiera della pace? Ovadia: Certo, l?ho portata in tutti i miei spettacoli. La guerra preventiva mi sembrava una barbarie già quando fu annunciata con argomentazioni surrettizie e false, rivelatesi tali. Vita: E per il Congo invece: nessuna bandiera? Ovadia: In questa provocazione c?è un elemento di verità, bisogna essere obiettivi. Io sono un marxista di formazione, questa è la mia storia e io sento come una gravissima colpa non aver mosso un dito contro Pol Pot, quando sterminava un terzo del popolo cambogiano. Dobbiamo trovare l?antidoto per sconfiggere il cancro dell?ideologia, ne va della nostra credibilità. Sulla Cecenia, per esempio, non c?è lo stesso livello di mobilitazione come nel caso dell?Iraq, anche se Amnesty anche lì ha fatto moltissimo. Vita: Cosa mi dice di Cuba? Ovadia: Per me che ho sognato la rivoluzione dell?Avana è difficile dirlo: ma la pena di morte è la pena di morte e la libertà di opinione o è un valore per tutti o non lo è. Non si può salvare Castro in nome del socialismo, non dimentichiamo che abbiamo scambiato per socialista gente come Ceausescu. Vita: Cosa prova per le persone che non sentono il bisogno di mobilitarsi? Ovadia: Solo rammarico. Senza lotta per i diritti, la chiami vita? Info: Amnesty International – Sezione Italiana per conoscere la sezione italiana Amnesty International per visitare il portale dell?associazione internazionale


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