Ricerche & Detenzione
Carcere, è tempo di valutarlo come un servizio pubblico
Uno studio mette in luce l’importanza di studiare e valutare il sistema penitenziario sotto l’aspetto economico-aziendale, che porta a focalizzare l’attenzione sulla coerenza tra missione e performance e, quindi, sull’adeguatezza dei modelli organizzativi a supporto del fine istituzionale. «Ragionare in termini di performance permette di recuperare una visione di sistema», afferma Filippo Giordano, ordinario di Economia aziendale dell’Università Lumsa di Roma
Gli studi aziendali hanno storicamente ignorato gli istituti penitenziari, abitualmente oggetto di altre scienze sociali. Eppure le carceri, come le scuole, le università, gli ospedali e tutte le amministrazioni pubbliche sono istituzioni che forniscono alla collettività un servizio pubblico finanziato con le tasse dei cittadini. Di recente è stato pubblicato il working paper Il sistema penitenziario come pubblica amministrazione. Mission, performance, costi e modelli organizzativi scritto a quattro mani da Filippo Giordano, ordinario di Economia aziendale dell’Università Lumsa di Roma e co-direttore del Master in Management e Politiche pubbliche, e Antonio Walter Rauti dell’Università degli Studi di Milano e componente del team di ricerca del Pnrr Lab di Sda Bocconi School of Management.
Giordano, cosa può dirci di questa vostra ricerca?
Per analizzare gli istituti di pena dal punto di vista economico-aziendale è necessario collocarsi nella prospettiva del management pubblico. L’obiettivo di questa ricerca è rimarcare l’importanza per il decisore pubblico di adottare un approccio evidence-based nella valutazione ed elaborazione delle politiche pubbliche nell’ambito dell’amministrazione penitenziaria. Abbiamo ritenuto interessante ragionare sul concetto economico-aziendale di performance del sistema penitenziario. È un concetto presente oggi nel linguaggio della pubblica amministrazione italiana e che è stato introdotto da un punto di vista normativo dal decreto Brunetta 150/2009. Secondo la norma, la performance può essere organizzativa o individuale, ma c’è anche una performance di sistema intesa come risultato complessivo dell’azione pubblica in un determinato ambito o servizio pubblico. Accostare la parola performance a un sistema penitenziario ha un duplice obiettivo. In primis significa riconoscere che il sistema penitenziario offre un servizio alla collettività (e che quindi che ci sono delle aspettative collettive nei confronti di questo comparto dell’amministrazione pubblica). In secondo luogo, dal punto di vista della gestione, ragionare in termini di performance significa considerare che i dati sul sistema non sono semplici statistiche ma il risultato di ciò che l’amministrazione pubblica fa e ci mette in quel servizio. Pertanto, i dati devono essere la base su cui poggiare le scelte di allocazione delle risorse e organizzative. In altri termini il concetto di performance permette di stimolare il sistema penitenziario a darsi degli obiettivi da raggiungere, a mettere in campo azioni correttive e misurarne gli esiti. Questo aiuterebbe anche a dare un senso maggiore al lavoro degli operatori.
Cosa ci mette l’amministrazione pubblica nel sistema penitenziario?
Ci mette risorse finanziarie, persone (che portano non solo competenze ma anche cultura e valori), spazi e infrastrutture. Il ragionamento sulla performance del sistema penitenziario deve, prima di tutto, riguardare l’adeguatezza delle risorse a disposizione e dei modelli organizzativi a supporto rispetto alla complessità della sua missione.
Il concetto di performance permette di stimolare il sistema penitenziario a darsi degli obiettivi da raggiungere, a mettere in campo azioni correttive e misurarne gli esiti. Questo aiuterebbe anche a dare un senso maggiore al lavoro degli operatori
Filippo Giordano
Può spiegarci in cosa è complesso il sistema penitenziario?
La complessità del carcere è data dal fatto che deve perseguire strutturalmente una molteplicità di obiettivi riconducibili a due macro-aree: quella della sicurezza (intesa come complesso di attività che devono garantire l’esecuzione penale, l’ordine e la sicurezza interna, la tutela delle persone vulnerabili, la prevenzione dei rischi, la protezione della società) e quella educativa, il cosiddetto trattamento (intesa come complesso di pratiche che ha lo scopo di “rieducare” i detenuti e restituirli alla società nella prospettiva del reinserimento sociale, ndr). I concetti di sicurezza e rieducazione necessitano di essere declinati e adattati alle specificità dell’utenza e alle caratteristiche dei singoli istituti di pena. Per questo ragionare in termini di performance costringe a sviluppare un pensiero con implicazioni operative rispetto a queste due dimensioni dell’agire organizzativo.
Nella ricerca si parla anche di equità e di etica
Equità è la capacità del sistema di non trattare tutti allo stesso modo, è riconoscere la necessità che, per raggiungere uno stesso risultato, bisogna erogare un servizio con ingredienti e intensità diverse a seconda delle specifiche caratteristiche dell’utente. Persone straniere, con gap culturali, con problemi di tossicodipendenza richiedono interventi ad hoc. Nel sistema penitenziario è necessaria un’offerta basata sull’individualizzazione e sulla personalizzazione. Va offerto un servizio individualizzato, costruito sulla base delle caratteristiche del singolo detenuto. Il tema dell’individualizzazione e della personalizzazione è uno dei temi centrali, attorno a cui hanno ruotato molte riforme che sono state fatte in altri paesi.
Il tema dell’etica invece richiama l’annoso dibattito sulle condizioni delle carceri tra chi chiede condizioni più dignitose di detenzione e chi considera la scarsa qualità del “servizio” un elemento connaturato alla natura punitiva della condizione carceraria. La dimensione etica di un servizio è riferibile all’accettabilità politico-sociale del suo livello quali-quantitativo, delle risorse ad esso assegnate. Questo tema ci interroga sulla cultura che abbiamo come paese. Creerebbe più scandalo in Italia una cella spartana, magari anche in cattive condizioni, o una cella ben arredata funzionale allo studio e in generale a condurre una vita dignitosa?
Anche per quanto riguarda i dati, bisognerebbe personalizzarli e lavorare per avere sempre più dati disaggregati?
Sì, ad esempio abbiamo poche informazioni sugli esiti dell’esecuzione penale in termini di inclusione sociale. I dati che circolano sulla recidiva sono poco solidi dal punto di vista scientifico, sono necessari seri approfondimenti. Per avere una misurazione solida è, per esempio, necessario circoscrivere il concetto di recidiva rispetto all’orizzonte temporale di misurazione (un conto è misurare la recidiva a distanza di un anno, altro è a cinque anni). Bisogna considerare le caratteristiche sociali e la condizione socio-sanitarie delle persone, il tipo di reato, l’età, la nazionalità, ecc. E, quindi, valutare quali sono le cause dei comportamenti recidivanti, quali attività rieducative funzionano su certi target e quali no. Un dato complessivo sulla recidiva, ammesso che ci sia, non ci aiuta nello sviluppo di politiche pubbliche efficaci. l dati disaggregati ci fanno capire dove e come intervenire. Che il lavoro abbatte la recidiva è ovvio, se si ha un’opportunità lavorativa ci sono meno probabilità di tornare in carcere nel breve periodo. Ma come deve essere progettato un intervento di reinserimento lavorativo per essere efficace rispetto ad uno specifico target? Le ricerche sulla recidiva devono aiutarci a rispondere a questa domanda.
Nel sistema penitenziario è necessaria un’offerta basata sull’individualizzazione e sulla personalizzazione
Filippo Giordano
Come si può fare un salto di qualità dal punto di vista della ricerca, in ambito penitenziario?
Le istituzioni devono aiutare i ricercatori, l’elemento di criticità rispetto allo studio di questi fenomeni è la qualità dei sistemi informativi oggi, sia dal punto di vista della rilevazione dei dati sia dal punto di vista dell’integrazione dei dati, della capacità dei dati di “parlare” ad altri dati. C’è un problema di integrazione dei dati tra il Ministero della Giustizia e altre istituzioni che lavorano e collaborano sul tema dell’esecuzione penale, penso agli enti territoriali della scuola, della sanità e dei servizi di welfare. È l’integrazione di dati provenienti di queste istituzioni che ci permette di capire se il sistema di esecuzione penale genera inclusione o esclusione sociale.
Lei studia da quasi dieci anni il sistema penitenziario, da un punto di vista economico-aziendale. In quest’arco di tempo, l’istituzione penale in Italia, secondo lei, ha fatto dei passi in avanti?
Non vorrei rischiare di essere banale, ma c’è veramente ancora molto da fare. Il linguaggio della disciplina economico-aziendale manca al mondo della giustizia ed questo è il motivo per cui abbiamo iniziato a sviluppare dei ragionamenti sul tema della performance ma anche in passato sull’organizzazione. In questi anni ho studiato questo mondo mettendo più a fuoco i problemi. Adesso è il tempo di pensare e studiare soluzioni. I problemi sono condivisi da tutte le componenti dell’amministrazione penitenziaria, il salto di qualità è quello di studiare soluzioni condivise.
In confronto a quello di altri paesi, com’è il sistema penitenziario italiano?
Nella nostra ricerca, abbiamo provato a mettere a confronto il sistema penitenziario dell’Italia, sulla base dei dati disponibili degli osservatori nazionali e internazionali, con altri paesi più vicini a noi come caratteristiche: Spagna, Germania, Francia, Uk, Norvegia. Abbiamo cercato di capire quali riforme siano state fatte in questi paesi. Abbiamo un sistema che costa relativamente di più rispetto agli altri. L’incidenza sul Pil della spesa sull’amministrazione finanziaria è dello 0,14%, la più alta. Vediamo questa spesa alta anche nella spesa pro-capite, 55,49 euro. Abbiamo deciso di inserire nella ricerca, tra gli indicatori, la spesa pro-capite perché il costo per detenuto è un dato assolutamente fuorviante: più detenuti hai, più il costo medio scende. Il costo alto può significare o che ci sono meno detenuti o che si ha un servizio con una qualità maggiore. Un altro indicatore che potrebbe stimolare la riflessione è la composizione del personale di custodia sul totale, al 92% in Italia, il dato più alto tra i paesi analizzati, dove oscillano tra il 52% della Spagna e l’87,55% della Germania. Questo vuol dire che il 92% del personale si occupa di sicurezza nelle carceri italiane, e questo pone un problema in termini di bilanciamento di competenze e conferma come il nostro sistema storicamente abbia prestato maggiori attenzioni e risorse al tema della sicurezza.
Manca una reale politica pubblica sul tema della rieducazione e del reinserimento. Sono riservate al trattamento poche decine di milioni, dei circa tre miliardi di budget dedicati al sistema. L’attività trattamentale in carcere è totalmente affidata alla libera iniziativa della società esterna, in prevalenza enti del Terzo settore
Filippo Giordano
Nelle carceri italiane la rieducazione e il reinserimento sono sistematizzati?
No, manca una reale politica pubblica sul tema della rieducazione e del reinserimento. Per politica pubblica intendo una regia nazionale e una strategia, che si traduca in risorse e interventi organici e duraturi. Sono riservate al trattamento poche decine di milioni, dei circa tre miliardi di budget dedicati al sistema. Tutto quello che accade nei singoli istituti, dal punto di vista trattamentale, è prevalentemente legato alle risorse messe a disposizione dai territori. L’attività trattamentale in carcere è totalmente affidata alla libera iniziativa della società esterna, in prevalenza enti del Terzo settore. Una percentuale bassissima sia di risorse che di progettualità provengono dall’amministrazione penitenziaria. La presenza di pochi attori specializzati sul reinserimento dei detenuti rende la maggior parte di queste iniziative estemporanee e precarie poiché dipendenti da piccoli finanziamenti annuali da parte di enti locali e fondazioni. I progetti di rieducazione sono, dunque, a carattere locale e di piccole dimensioni, sia dal punto di vista delle risorse impiegate che del numero detenuti coinvolti. Quindi sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo le opportunità offerte ai detenuti sono molto differenti da carcere a carcere. Quello che accade in una città come Milano dipende dal privato sociale molto attivo, che propone e svolge attività all’interno degli istituti. Le opportunità che sono offerte a un detenuto del carcere di Bollate sono sicuramente maggiori di quelle offerte nelle carceri meridionali, ad esempio. Anche la situazione regionale è molto eterogenea, nella stessa Lombardia ci sono disparità strutturali. In Lombardia non esiste solo Milano, ma ci sono anche territori meno ricchi di risorse come il pavese, il cremonese e il mantovano. Questo evidenzia la necessità di sviluppare programmi nazionali e progetti di più ampio respiro, con possibilità di scaling up, in grado di raggiungere impatti più significativi.
Per quanto riguarda, nello specifico, le opportunità lavorative per i detenuti, cosa ci può dire?
Un terzo dei detenuti, in questi anni, ha avuto opportunità lavorative. Di queste persone, il 29% ha avuto rapporti di lavoro con l’amministrazione penitenziaria, il 4% ha avuto opportunità lavorative grazie alle cooperative sociali, meno dello 0,4% dei detenuti ha lavorato per imprese. Questo significa che le opportunità di lavoro qualificato per le persone detenute oggi sono pochissime. Lavoro qualificato vuol dire lavoro effettivamente riabilitante: portare il vitto nelle sezioni o fare le pulizie fa guadagnare qualche soldo, ma non qualifica. Per lavoro qualificato intendo opportunità che facciano acquisire competenze e che aprano alla possibilità di inserimento. Su questo c’è ampio spazio per il protagonismo delle imprese.
Foto di apertura di MarkoLovric su Pixabay
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