Neurodivergenza

Comprendersi si può. Ma solo relativizzando sé stessi

Il mediatore neuroculturale, teorizzato, e ora anche formato, dall'associazione Neuropeculiar, fondata e gestita da persone nello spettro autistico, è una figura professionale in grado di aiutare le persone neurotipiche e neurodivergenti a non assolutizzare il proprio punto di vista e il proprio funzionamento, in modo da poter comprendere anche chi ragiona in maniera diversa

di Veronica Rossi

Dettaglio delle mani di due persone, una di fronte all'altra all'aperto, mentre si stanno sfiorando

Dare la possibilità di comprendere gli altri, ma soprattutto sé stessi, il proprio posizionamento nel mondo e la relatività della propria visione delle cose. È questo, in ultima analisi, lo scopo del mediatore neuroculturale, una figura professionale teorizzata, promossa – e ora anche formata – dall’associazione Neuropeculiar, movimento per la biodiversità neurologica, organizzazione fondata e gestita da persone autistiche. Un ruolo chiave all’interno della società, in grado di mediare tra neurotipi differenti, senza sbilanciamenti e pregiudizi valoriali, utile all’interno di ogni contesto di vita, da quello scolastico a quello lavorativo.

«L’idea della mediazione neuroculturale come strumento di supporto per la comunicazione tra persone autistiche e non autistiche è nata nel 2018, quando ho iniziato a occuparmi delle scienze sociali sull’autismo», racconta Roberto Mastropasqua, segretario di Neuropeculiar e primo teorizzatore della figura. «In particolare, all’epoca, mi sono concentrato sul lavoro di Elinor Ochs, un’antropologa che studiava proprio la comunicazione tra persone, bambini e bambine, autistiche e arrivava alla conclusione che esista una socialità autistica. Questo mi ha fatto fare un’associazione con le diverse culture; la modalità comunicativa giapponese o scandinava è diversa da quella italiana. Trattando la modalità relazionale e comunicativa delle persone autistiche come se fosse un cultura, mi è venuto in mente che ci vorrebbe una figura che medi tra i due tipi di comunicazione, più che richiedere a un tipo di adattarsi all’altro».

Si tratta, quindi, di un discorso molto diverso rispetto all’assimilazione, che presuppone che un gruppo si adatti e si sradichi rispetto alla sua identità per essere accettato: la mediazione è un modo per dare a due soggetti che hanno culture differenti la possibilità di comprendersi l’un l’altro pur essendoci delle differenze. Non significa quindi costruire dei ponti, ma abilitare le persone a costruirne in prima persona. «Abbiamo coinvolto nella definizione di questo ruolo professionale Giorgio De Acutis, un mediatore interculturale che lavora anche come educatore con le persone autistiche a Roma», spiega Alice Sodi, vicepresidente di Neuropeculiar. «Lui ci ha aiutati ad allontanarci dall’idea di mediazione intesa nell’accezione comune, come stare in mezzo a due parti in disaccordo, per far fare la pace. In realtà significa di più aiutare le persone a rendersi conto di essere sostanzialmente posizionate nel mondo».

Una persona occidentale, in Occidente, si sente una persona neutra, senza ulteriori connotazioni. Così un neurotipico – il cui funzionamento neurologico, quindi, è assimilabile a quello della maggioranza – si sente una persona “prototipica”. Il mediatore, invece, serve proprio a far prendere coscienza del fatto che nessuno è davvero neutro e che ciascuno di noi si affaccia sul mondo con le proprie “lenti”, per utilizzare una metafora di kantiana memoria. La nuova figura professionale non è pensata per fare sensibilizzazione sull’autismo, spiegandolo a chi non fa parte dello spettro. «Il mediatore non ti spiega l’altro, ti spiega te stesso», commenta Sodi. «E lo fa per entrambe le parti, perché entrambe tendono, com’è fisiologico, a un’assolutizzazione della propria esperienza e del proprio punto di vista. Ti aiuta vedere anche, banalmente, come si tenda a scaricare sempre sull’altro il fallimento dell’interazione e delle relazioni: è un processo di decostruzione culturale».

Insomma, quello del mediatore neuroculturale non è sicuramente un lavoro facile, perché è necessario applicare prima di tutto a sé stessi e al proprio contesto il relativismo culturale, mettersi in discussione ed essere flessibili, adattarsi. Non esiste un decalogo di regole da adottare, perché ci saranno sempre delle eccezioni, dei modi di ragionare diversi; i limiti di un approccio prescrittivo si vedono anche quando si adottano protocolli rigidi per interfacciarsi con i bambini autistici a scuola, che rischiano sempre di non funzionare per qualcuno. Ovviamente, visto che si parla di persone, ciascuna con le proprie caratteristiche e le proprie specificità. La nuova figura non è sovrapponibile a quella dell’educatore che, intrinsecamente, presuppone un rapporto asimmetrico – io ti educo, tu vieni educato e impari a fare delle cose che hai bisogno di fare –, mentre il mediatore deve assumere una posizione simmetrica e bidirezionale, per la quale ha bisogno di una doppia formazione: da una parte quella afferente alla mediazione interculturale, dall’altra quella dei disability e social studies.

Il secondo obiettivo del mediatore neuroculturale è lavorare per un’evoluzione della società e della cultura verso una direzione di convivenza delle differenze (definizione coniata dall’attivista Fabrizio Acanfora, presidente di Neuropeculiar); per questo motivo un luogo privilegiato per questo lavoro è la scuola, dove si può investire sulle nuove generazioni perché si maturi una consapevolezza della neurodiversità, intesa come biodiversità neurologica, quindi come insieme di tutti i possibili funzionamenti dell’essere umano. «La figura dell’insegnante di sostegno è perfetta per ricoprire il ruolo del mediatore», continua Sodi, «è già prevista a livello normativo nel sistema scolastico e ha già una sua collocazione in questo senso; andrebbe ad agire non solo su un bambino o un ragazzo, ma anche sugli altri studenti, sui colleghi, il dirigente e tutto il personale».

Non è un caso, quindi, che i due maggiori progetti su cui Neuropeculiar sta lavorando in questo senso siano proprio legati da una parte alla formazione dei formatori per gli insegnanti di sostegno, in collaborazione con l’Università di Torino, e dall’altra agli interventi nella scuola. La seconda iniziativa, realizzata nelle classi terze delle primarie di alcuni istituti in Piemonte, Toscana e Sicilia, ha avuto risultati molto interessanti. «Abbiamo svolto un percorso strutturato e graduale di 20 ore», conclude la vicepresidente, «che portava i bambini a rendersi conto di quanto fosse relativa la loro specifica esperienza del mondo; gli alunni hanno fatto delle considerazioni assolutamente puntuali e controintuitive e soprattutto hanno detto, in modo abbastanza omogeneo nelle varie classi, che loro stessi ritenevano che i genitori non avrebbero compreso il concetto se gliel’avessero spiegato, perché non avevano fatto lo stesso percorso di ragionamento che avevano condotto loro. Sentivano di aver afferrato qualcosa che gli adulti della loro vita a casa avrebbero fatto fatica a cogliere».

Foto in apertura da Unsplash


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