Società

Giovani, i grandi dimenticati della politica italiana

Secondo l'ultimo rapporto del Censis, i ragazzi sono sempre meno, hanno minori possibilità rispetto al passato e tendono di più ad andare all'estero. L'Italia è un Paese che investe poco sulle nuove generazioni, sulla loro formazione e sul loro futuro. Secondo Alessandro Rosina, professore di demografia e statistica sociale alla Cattolica di Milano, il Pnrr potrebbe essere un buon modo per invertire la tendenza, ma bisogna fare attenzione a gestire bene i fondi. Dal basso, intanto, arrivano segnali positivi di cambiamento

di Veronica Rossi

Quattro giovani di spalle abbracciati in un campo di grado, mentre guardano il cielo al tramonto

L’ultimo rapporto del Censis sulla società italiana non restituisce un quadro lusinghiero del nostro Paese, una terra di «sonnambuli», caratterizzata da scelte politiche poco lungimiranti e avviata verso un declino demografico che pare inesorabile (nel 2050 avrà perso 4,5milioni di residenti). A fare le spese di questa situazione sono e saranno soprattutto i giovani, generazione in fuga, trascurata dalla politica e poco rappresentata nei luoghi di potere. Gli italiani dai 18 ai 34 anni sono oggi poco più di 10milioni, il 17,5% del totale (nel 2003 erano il 23%); contano poco in politica, sia come elettori – se teniamo conto anche del fatto che i minori non votano, il peso del voto delle nuove generazioni è estremamente basso – che come eletti. Non molti ruoli istituzionali, infatti, sono svolti da persone sotto i 40 anni. In questo clima, non stupisce la fuga verso l’estero: gli iscritti per l’espatrio giovani e giovanissimi, solo nell’ultimo anno, sono 50mila, il 60,4% del totale.

«I giovani italiani non vedono riconosciuto il loro ruolo all’interno dei processi di crescita e sviluppo del territorio in cui vivono», dice Alessandro Rosina, professore di demografia e statistica sociale dell’università Cattolica di Milano. «L’Italia investe meno degli altri Paesi sulla formazione: abbiamo una dispersione scolastica più alta rispetto alla media europea, abbiamo una percentuale maggiore di Neet – ragazzi che non lavorano e non studiano per le difficoltà della transizione tra scuola e lavoro – e un numero più basso di giovani che arrivano alla laurea». Si investe poco in politiche attive del lavoro, in ricerca e innovazione; in tutti quegli ambiti, insomma, in cui le idee delle nuove generazioni possono diventare nuovi prodotti e servizi per il mercato. L’Italia ha anche un rapporto tra debito pubblico e Pil tra i peggiori d’Europa; uno squilibrio che va a pesare soprattutto su chi deve ancora costruirsi un futuro.

I giovani italiani non vedono riconosciuto il loro ruolo all’interno dei processi di crescita e sviluppo del territorio in cui vivono

Alessandro Rosina

«Collettivamente si investe meno sulle nuove generazioni», continua Rosina. «D’altro canto, però, rispetto agli altri Paesi c’è più protezione privata. I giovani trattati meno come fasce di popolazione da promuovere attraverso politiche adeguate e più come figli da proteggere all’interno delle famiglie, che vanno a compensare la carenza del pubblico. Abbiamo quindi ragazzi che dipendono a lungo dalla ricchezza accumulata dalle generazioni precedenti, in particolare dei propri genitori». Questo tuttavia provoca delle disuguaglianze sociali che costituiscono un importante freno alla mobilità sociale: se nasci nella famiglia giusta e puoi trovare sostegno, aiuto e stimoli continui, riesci più facilmente a concludere gli studi ed entrare nel posto di lavoro. In Italia non si trova un impiego attraverso i canali formali: contano ancora di più le conoscenze e le raccomandazioni. Ancora una volta, quindi, conta la fortuna di nascere nella famiglia giusta. «Manca un sistema di orientamento efficace all’interno delle scuole, che invece gli altri Paesi hanno», afferma l’esperto. «Quindi ancora una volta sono importanti i genitori, per la formazione, il sostegno economico, il mutuo, gli affitti. Coloro che nascono in contesti con meno risorse socio-culturali sono bloccati rispetto alle possibilità di miglioramento sociale e si trovano a rivedere al ribasso le proprie aspettative e i propri desideri e a non esprimere pienamente le proprie potenzialità».

Il rischio è che, quindi, che l’Italia diventi un Paese senza figli o con figli unici, in cui chi ha alte ambizioni sia già orientato verso la scelta di andare all’estero a formarsi e a trovare migliori opportunità lavorative. E gli squilibri demografici non aiutano questa tendenza: ci sono sempre più adulti che rinunciano ad avere bambini e persone avanti con gli anni, quindi fasce di popolazione più disinteressate al futuro delle nuove generazioni. In questo modo, tuttavia, si perdono anche competenze: non è un caso che il Censis riporti, tra le persone che decidono di trasferirsi all’estero, un 45,7% di giovani laureati.

Anche se lo scenario sembra poco incoraggiante, non tutto è perduto. «Ci sono anche segnali incoraggianti», dice Rosina. «Uno è il finanziamento che sta arrivando attraverso il fondo Next generation Europe che, come si deduce dal nome, dovrebbe andare verso un miglioramento della condizione delle nuove generazioni. Però attenzione: se il Pnrr non andrà a migliorare strutturalmente la situazione dei giovani gli investimenti mal utilizzati rischieranno di diventare debito pubblico e di causare ancora più frustrazione nei ragazzi di un Paese che non è riuscito a superare i limiti del passato e continua a lasciare le nuove generazioni ai margini». I giovani sono in attesa di capire se con i fondi in arrivo l’Italia riuscirà ad imboccare un nuovo cammino: se così non fosse, si rischierebbe una perdita completa della credibilità della classe dirigente e i flussi verso l’estero diventerebbero inarrestabili.

Da un lato la pandemia ha reso i ragazzi più fragili, dall’altro li ha resi più attenti alle istanze della propria generazione

Alessandro Rosina

«Un secondo segnale incoraggiante è l’atteggiamento dei ragazzi; da un lato la pandemia li ha resi più fragili, dall’altro li ha resi un po’ più attenti alle istanze della propria generazione», aggiunge il professore, «come soggetti che vogliono cambiare quello che non funziona nel sistema Paese. Il tema dell’ambiente è un laboratorio interessante: i più giovani vogliono porre in maniera chiara, determinata e, a volte, forte i problemi che stanno loro a cuore e chiedono che siano messi nell’agenda politica. Ci sono anche altri segnali interessanti dal basso, come la ragazza che ha montato la tenda davanti al Politecnico contro il caro affitti. Finora non c’erano esempi di questo tipo: una persona che non riusciva a permettersi l’alloggio chiedeva ai genitori di essere aiutato maggiormente oppure rinunciava a studiare. Erano scelte individuali. Invece ora il tema è trattato in modo collettivo. Non è un problema solo mio: il Paese ha bisogno di giovani che studino e che si laureino ed è giusto investire sulle nuove generazioni e sulla possibilità di essere autonomi e indipendenti». In questa direzione va anche la protesta contro i ritardi dei treni di questi giorni, guidata da un diciassettenne, stufo di arrivare a scuola sempre fuori orario.

«Questo atteggiamento dei giovani, questa voglia di farsi sentire e di contare, non solo per trovare soluzioni al proprio caso, ma per riconoscere quello che non funziona nel sistema Paese e trovare il modo di migliorarlo collettivamente è un segnale interessante», conclude Rosina. «Le nuove generazioni vanno aiutate in questo, non tanto a diventare conflittuali rispetto a quelle più mature, ma a diventare reattive nei processi di cambiamento e di evoluzione del territorio in cui vivono».


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In apertura, foto di Dim Hou su Unsplash

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