Cop28

Clima, a Dubai 200 Paesi in cerca di un accordo

di Elisa Cozzarini

Foto di ZQ Lee su Unsplash

Al summit sul clima negli Emirati Arabi Uniti, dal 30 novembre al 12 dicembre, quasi duecento Stati dovranno trovare la strada su due punti fondamentali: decarbonizzazione e aiuti agli Stati più vulnerabili. La sfida è riuscire a comporre il variegato mosaico di richieste e proposte, mentre i negoziati si svolgono a casa del quinto produttore mondiale di petrolio. In gioco c’è il futuro del pianeta come lo conosciamo e le parti sono consapevoli che bisogna fissare nuovi obiettivi più ambiziosi, nel rispetto dell’Accordo di Parigi.

C’è una linea che segna i negoziati delle Nazioni Unite sul clima: quella che separa i Paesi sviluppati, i principali responsabili del riscaldamento globale, dagli Stati in via di sviluppo. La Cina, oggi il principale emettitore di gas a effetto serra, si considera ancora parte del secondo gruppo. È leader sia nel bene, per l’energia rinnovabile, sia nel male, per l’uso delle fossili, in particolare del carbone. Gli Stati Uniti sono storicamente responsabili delle emissioni che hanno portato all’attuale aumento della temperatura media del pianeta ma non intendono assumersi l’impegno di risarcire i Paesi più vulnerabili. Alla vigilia della Cop 28 di Dubai, l’accordo tra Joe Biden e Xi Jinping per la collaborazione sul clima siglato a metà novembre in California lascia intravvedere un barlume di speranza. Invece, il fatto che i negoziati si tengano nella capitale degli Emirati Arabi Uniti, quinto produttore di petrolio al mondo, sotto la presidenza di Sultan al-Jaber, direttore della compagnia petrolifera di Stato, non è molto promettente.

I diplomatici di quasi duecento Paesi, che si incontreranno a Dubai dal 30 novembre al 12 dicembre, dovranno fare il punto sugli impegni volontari assunti dai governi (Nationally determined contributions – Ncd) in seguito all’Accordo di Parigi. Sarà necessario fissare nuovi obiettivi più ambiziosi, per poter contenere l’aumento della temperatura «a 1,5°C e comunque ben al di sotto dei 2°C» rispetto ai valori preindustriali. L’altro passaggio importante sarà la decisione su come finanziare il fondo per le perdite e i danni: gli Stati Uniti hanno già dichiarato che non contribuiranno, mentre l’Ue chiede una responsabilità condivisa con le economie emergenti.

Riduzione o eliminazione graduale

Su come ottenere questo risultato ci sono posizioni diverse (sono riassunte e in continuo aggiornamento al link: www.carbonbrief.org/interactive-who-wants-what-at-the-cop28-climate-change-summit). Alla Cop26 di Glasgow, due anni fa, su pressione di Cina e India, si decise non l’eliminazione graduale (phasing out) ma «la riduzione progressiva (phasing down) del carbone non catturato (unabated)», cioè le cui emissioni non vengono abbattute, per esempio con sistemi di cattura della CO2. Alla Cop 27 di Sharm-el-Sheikh lo scorso anno, l’India propose, con il sostegno di circa 80 Paesi, compresa l’Unione europea, di estendere l’impegno per il phasing down a tutte le fonti fossili, senza successo. Nei negoziati sul clima più importanti da quando è nato l’Accordo di Parigi, le associazioni ambientaliste chiedono l’uscita dalle fossili entro il 2050. «I leader dovranno realizzare un piano globale per eliminare tutti i combustibili fossili, – dichiara Mariagrazia Midulla, responsabile Clima ed Energia del WWF Italia. – Se non si agirà finalmente con decisione per porre fine all’era dei combustibili fossili, responsabili dell’87% delle emissioni climalteranti, il mondo sarà condannato a subire crescenti sconvolgimenti climatici. Porre fine alla produzione e all’uso dei combustibili fossili e passare al 100% di energia rinnovabile è la soluzione che avrà il più grande impatto sul cambiamento climatico su scala globale». 


Unione europea, Australia, Canada, Kenya, Norvegia, Regno Unito, Stati Uniti e l’Alleanza delle piccole isole Stato – Aosis dichiarano prioritaria l’eliminazione delle fossili non catturate. Se questa posizione verrà accettata, bisognerà chiarire cosa si intende esattamente, visto che le tecnologie per la cattura di emissioni di CO2, oltre a essere controverse, sono ancora molto costose e non diffuse su ampia scala. L’Ue preme perché le tecnologie per la cattura di CO2 non diventino una scusa per ridurre l’impegno alla decarbonizzazione. Gli Emirati Arabi Uniti hanno dichiarato che «la riduzione della richiesta e dell’approvvigionamento di tutte le fonti fossili è inevitabile ed essenziale».

A prendere posizione per la graduale eliminazione di tutte le fonti fossili sono solo l’Alleanza delle piccole isole Stato – Aosis, la Nuova Zelanda e la High Ambition Coalition – Hag, composta da Austria, Etiopia, Francia, Grenada, Guatemala, Irlanda, Kenya, le Isole Marshall, i Paesi Bassi, Samoa, Senegal, Slovenia, Spagna, Tuvalu, Vanuatu e Zambia (www.highambitioncoalition.org). Si oppongono il gruppo degli Stati africani, Cina e Russia.

Alcuni Paesi africani, come il Mozambico, sono contrari alla graduale eliminazione dei fossili e chiedono invece di poter sfruttare i propri giacimenti di gas naturale, sia per il mercato interno, sia per rispondere alla domanda di gas dell’Ue. Dal loro punto di vista, i Paesi più poveri devono avere la possibilità di sfruttare le proprie risorse nel breve periodo.

Rinnovabili ed efficienza

C’è un più ampio accordo, invece, sull’obiettivo di triplicare la produzione di rinnovabili per il 2030. Sono a favore Unione europea, Regno Unito, Stati Uniti, Australia, Canada, Cina, India, la High Ambition Coalition – Hag, il gruppo dei 46 Paesi meno sviluppati Less developed countriesLdc, l’Environmental integrity group – Eig, formato da Lichtenstein, Messico, Monaco, Corea, Svizzera e Georgia. Queste stesse parti, esclusi Cina e Stati Uniti, propongono anche di raddoppiare il tasso di efficienza energetica. Gli Stati africani chiedono aiuti economici per poter realizzare la transizione energetica.

La Finlandia, per la prima volta, avrà il suo padiglione alla Cop, con l’obiettivo di consolidare la propria immagine di  centro per lo sviluppo di tecnologie verdi.

Perdite e danni

Tuvalu – Foto di Sangga Rima Roman Selia su Unsplash

Uno dei principali risultati della Cop27 è stata la decisione di istituire un fondo per finanziare il capitolo Loss & Damage, ossia le perdite e i danni irreparabili a cui i Paesi più poveri e vulnerabili devono far fronte a causa di alluvioni, siccità, ondate di calore, innalzamento del livello del mare. La sfida della Cop28 sarà trovare un meccanismo per finanziare il fondo. John Kerry, l’inviato speciale per il clima della Casa Bianca, ha dichiarato recentemente che gli Stati Uniti «in nessun caso pagheranno» per i danni prodotti dalla crisi climatica nei Paesi più vulnerabili. Dall’altra parte la Cina, che si considera in via di sviluppo, ritiene che la finanza climatica sia un dovere dei Paesi di vecchia industrializzazione. L’Ue, che da sempre è stata dalla parte delle piccole isole e degli Stati più vulnerabili, chiede il riconoscimento di una responsabilità condivisa e che a pagare siano anche la Cina e le altre economie emergenti come Brasile, Sudafrica e India.

La disponibilità dei Paesi ricchi a investire nella finanza climatica oggi non è così alta anche a causa degli impegni presi per gli aiuti alle popolazioni colpite dai conflitti in Ucraina, Israele e Palestina.

Nella foto di apertura: Dubai. Si ringrazia ZQ Lee su Unsplash

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