Giornata mondiale per la lotta contro l'Aids

Hiv: si punti su cittadini e associazioni

Con lo slogan "Let communities lead", l'Oms dedica la giornata alle comunità e alla società civile, il cui ruolo è cruciale per combattere l'Hiv. Azzerare la carica virale si può, diagnosi precoci e terapie consentono di cronicizzare la malattia ma permangono pregiudizi e stigma. Per questo, parte la campagna "Hiv. Ne parliamo?"

di Nicla Panciera

Il 1° dicembre è la Giornata Mondiale per la lotta contro l’Aids e quest’anno la ricorrenza sarà dedicata alla società civile, ai cittadini coinvolti a vario titolo e alle associazioni. «Facciamo guidare le comunità» (Let communities lead) è lo slogan scelto per questa edizione 2023, in occasione della quale l’Organizzazione mondiale della sanità Oms invita i leader globali e i cittadini ad agire in tre modi. In primo luogo, coinvolgere la leadership della comunità in tutti i piani e i programmi sull’Hiv, secondo il noto motto “Niente su di noi senza di noi”; finanziarli, perché «non porre fine all’Aids è più costoso che eliminarlo» e sostenere la società civile con una solida regolamentazione, quindi «rimuovere le leggi che danneggiano, creare leggi che danno potere». Qui il messaggio del segretario generale dell’Onu António Guterres.

Eliminare l’Aids

Non si pensi, infatti, l’Aids sia un problema scomparso: continua a causare un decesso al minuto nel mondo. Il Programma delle Nazioni Unite per l’Hiv e l’Aids Unaids per l’eliminazione dell’Aids punta al raggiungimento entro il 2030 dell’obiettivo “95-95-95”: garantire che il 95% delle persone che vivono con l’HIV conosca il proprio stato sierologico, che il 95% di queste riceva un trattamento antiretrovirale e che il 95% delle persone in terapia abbiano una carica virale non rilevabile. La malattia colpisce anche il nostro paese, dove si cerca di combattere un sommerso stimato di 10mila individui, persone che non sanno di essere infette e contribuiscono così alla diffusione del virus.

“Hiv. Ne parliamo?”

In Italia, è in partenza la campagna “Hiv. Ne parliamo?“, ispirata alle storie delle persone con Hiv e rivolta a tutti, perché parlarne è il principale modo per abbattere stigma e pregiudizi che ancora costituiscono un ostacolo all’ottenimento di quella buona qualità della vita che sarebbe altrimenti ottenibile grazie all’aderenza alle efficaci terapie capaci di azzerare la carica virale. La campagna, promossa da Gilead Sciences con il patrocinio di 16 Associazioni di pazienti italiane, della Società italiana di malattie infettive e tropicali Simit e dell’Italian conference on Aids and antiviral research Icar, pone l’attenzione sugli aspetti di vita che possono essere migliorati, per prenderne consapevolezza e iniziare ad affrontarli.

Perché parlarne

«Considerato che il 95% delle persone comunica l’infezione ma lo fa in modo molto parziale, spesso escludendo familiari e amici, è evidente» sottolinea Gabriella d’Ettorre del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive, Sapienza Università di Roma «che c’è ancora una forte componente di stigma e ‘autostigma’ che pesa sulla vita delle persone che scoprono la sieropositività al virus, con un carico che impatta negativamente sulla qualità di vita e sul benessere psicologico». Bisogna quindi parlarne, in primo luogo con il proprio medico. Anche perché, aggiunge Alessandro Lazzaro, Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive, Sapienza Università di Roma, «l’impatto sulla salute mentale e il benessere psicologico, come insonnia, ansia, depressione, possono avere molte cause. Lo stigma sociale, purtroppo ancora fortemente presente, è una delle principali. Ma dietro alcuni di questi disturbi può esserci una causa biologica, legata agli effetti del virus o della stessa terapia antiretrovirale».

Scarsa consapevolezza e disagio psicologico

La realtà, confermata anche da un’indagine di Elma Research su cinquecento pazienti, è che il 40% delle persone che vive con HIV apprende dell’infezione casualmente, quindi non per essere andato a fare il test, ma tramite accertamenti o ricoveri. Ben 2 su 10 rimandano di comunicarlo agli altri, principalmente per la paura del giudizio e dell’emarginazione. Poco più della metà dei rispondenti dichiara di conoscere il valore dell’ultima viremia. Evidenze simili per la conoscenza del valore dei linfociti CD4, noto a poco più della metà delle persone. Tre persone su 10 dichiarano di non conoscere nessuno dei due valori. I «consapevoli», coloro che conoscono sia il proprio livello di viremia sia dei linfociti CD4, sono solo 4 persone su 10. C’è poi l’impatto dell’infezione HIV su vari aspetti quotidiani come la serenità psicologica, la vita sessuale, le relazioni con gli altri e con sé stessi. Quindi, nonostante i progressi terapeutici, permangono grosse criticità che non riguardano però solo il settore medico-sanitario, ma psicologico e sociale.

L’aderenza mancata

C’è poi la mancata aderenza alle terapie che interessa oltre un terzo dei pazienti. «Essere aderenti alla terapia vuol dire diminuire drasticamente la probabilità di comparsa di mutazioni del virus che possono provocare “resistenze ai farmaci anti-HIV”, ossia una ridotta o assente capacità dell’efficacia della terapia stessa» Andrea Gori del Dipartimento malattie infettive del Sacco di Milano e presidente Anlaids Lombardia. «Non solo. Chi segue le indicazioni terapeutiche protegge anche gli altri, poiché azzerando la replicazione del virus non trasmette l’infezione, non è più contagioso. Un concetto rivoluzionario e allo stesso tempo molto semplice che si traduce in U=U (Undetectable꞊Untransmittable) ovvero ‘mi curo, non infetto’”».

Diagnosi tempestive e precoci

Permane l’enorme problema dall’elevata percentuale di nuove diagnosi di infezione in stadio avanzato. Una situazione inaccettabile, dal momento che ci sarebbero molte strategie efficaci per attuare le raccomandazioni delle agenzie sanitarie internazionali sull’esecuzione del test Hiv nelle strutture sanitarie ospedaliere o del territorio. Si potrebbe cercare la sieropositività facendo testing in modo routinario nei Ps, come lo studio guidato da Gabriella d’Ettorre nel Ps dell’Umberto I di Roma, o anche in alcuni reparti più a “rischio”, ma serve organizzazione, tempo e formazione dei non infettivologi. Invece, nel nostro paese, secondo gli ultimi dati pubblicati dal Coa, invece, in quasi il 60% dei casi l’infezione viene scoperta in fase avanzata. Arrivare a diagnosi tempestive è una tematica particolarmente urgente da affrontare, anche perché una diagnosi non tempestiva aumenta da due a sette volte la probabilità di decesso, è associata a una peggior prognosi, anche per le malattie correlate all’Hiv e ad un aumento dei costi.

Foto: immagine del manifesto Let communities lead, Oms


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