Salute pubblica
Case della comunità, un tour nazionale per ragionare in termini di benessere e non di sanità
Inizia dalla Sardegna il viaggio dell'associazione "Prima la comunità" presieduta da don Virginio Colmegna. Una modalità per promuovere un progetto innovativo che mette al centro il concetto di benessere e non quello della sanità, così com'è stato inteso sino ad oggi
Questa mattina a Sinnai (Cagliari) è partita la prima tappa del tour organizzato in Sardegna dall’associazione “Prima la Comunità” Ets, che prevede altri due appuntamenti (a Iglesias e a Macomer) e, successivamente, nella penisola. Al centro dei lavori, che si sono tenuti nella sede della Fondazione Polisolidale, la presentazione delle proposte dell’ente di Terzo settore presieduto da don Virginio Colmegna, che è anche presidente emerito della Fondazione Casa della Carità “Angelo Abriani”, in merito alle Case della comunità.
«È un tema ormai entrato nel piano strategico del Pnrr», ha sottolineato don Colmegna durante il primo evento isolano. «Il termine comunità sta alla base anche di scelte del passato che hanno portato, tra l’altro, al superamento di strutture come i manicomi. La nostra associazione è un grande movimento culturale. Parte da un lavoro capillare nei territori, e ora a livello nazionale conta duecento persone tra rappresentanti di una quarantina di reti nazionali e associazioni di varie regioni italiane e numerosi volontari: tra questi ultimi vi sono esperti dell’area welfare, accademici, imprenditori, professionisti della sanità e del sociale, cittadini impegnati a sostenere i valori e i principi di uguaglianza, solidarietà, universalismo che sono contenuti nella Carta Costituzionale, con una particolare attenzione alle fasce più deboli della popolazione e alla lotta per contrastare le diseguaglianze».
«In questo contesto, riteniamo che la Casa della Comunità, introdotta nel nostro ordinamento, sia una grande opportunità per fare un indispensabile salto di paradigma dalla sanità alla salute, nella logica più volte affermata anche in vari documenti dalla Organizzazione mondiale della sanità – Oms», ha proseguito don Colmegna. «Inoltre, consente di rafforzare la concezione della prossimità e del protagonismo delle persone nel reimpostare un welfare di comunità che risponda effettivamente ai bisogni dei cittadini. Per questo abbiamo lavorato, anche in collaborazione con alcune Università italiane (tra queste la Bocconi di Milano e l’ateneo di Torino), alla messa a punto di un’idea di Casa della Comunità che non sia un semplice cambio di insegna su uno dei nostri poliambulatori, ma che invece rappresenti davvero una concezione innovativa. Non abbiamo la pretesa di avere la soluzione in tasca, ecco perché stiamo avviando una serie di confronti e una costruttiva discussione sui vari territori del nostro Paese, per incontrare istituzioni, associazioni del Terzo settore e del volontariato, operatori e cittadini».
«La difesa della salute come bene comune, è un principio costituzionale e non qualcosa di concesso. È un diritto universalmente protetto e fondamentale. La nostra Costituzione salvaguarda il sistema di salute pubblica. Per far questo c’è una logica di integrazione che aiuta a garantire il benessere della persona e a superare l’ottica mercantile della sanità ridotta a merce, cioè l’ottica di carattere prestazionistico. La salute non si consuma: la si promuove in un’ottica di cura. E la stessa definizione, Casa della comunità, non indica un’istituzione separata, un servizio, ma è un rimettere in gioco la centralità della persona. Il principio etico da caricare di tutta la densità del valore che ha la difesa della persona. La Casa della comunità non è un poliambulatorio di servizi, semmai è una realtà che sta sul territorio, perché sono fondamentali tanto il distretto territoriale quanto l’analisi del contesto, per sviluppare la prevenzione e la cura nella prossimità».
«La salute è uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale, e non semplicemente assenza di malattie o infermità», hanno sottolineato la psichiatra Silvia Landra, l’assistente sociale Emanuela Geromini e l’antropologa medica Marzia Ravazzini, di “Prima la comunità”. «Non dobbiamo passare soltanto dal concetto di sanità a quello più esteso di salute, ma anche da “prestazione” a “prendersi cura”, da “efficienza” a “efficacia”, da “economia di scala” a “partecipazione”. Per fare questo occorrono tanti elementi: una diversa alleanza tra gli enti del Terzo settore, una maggiore interazione tra lo stesso Terzo settore e il soggetto pubblico, un differente rapporto con i territori al di fuori dei grandi centri abitati: il 55% della popolazione mondiale vive nelle grandi città. L’Onu stima che, nel 2050, questa percentuale arriverà a toccare il 70%. Le politiche sociali devono essere pensate in maniera diversa dal solito, con due novità essenziali: intanto, occorre il ribaltamento di prospettiva (vale a dire che non devono più essere le persone a cercare i servizi, bensì il contrario: i servizi devono incontrare i più bisognosi nei luoghi da loro vissuti e frequentati). Riguardo la presa in carico, invece, la persona non dev’essere più seguita in base al singolo problema di salute che può avere, ma nella sua interezza, compresi i bisogni di ordine sociale».
Antonello Caria, componente del direttivo nazionale di “Prima la comunità” e uomo di punti di Acli Sardegna, ha tenuto a precisare che «la scelta di queste tre sedi non è stata casuale: rispecchia non solo la rete di promotori che abbiamo creato in Sardegna per ragionare su questa rivoluzione epocale, ma tiene conto anche dei territori in cui dovranno sorgere queste nuove strutture, come quello che comprende Burcei, Sinnai e Maracalagonis. Stiamo ragionando anche con alcuni dirigenti dei distretti sanitari. Senza una rete forte, le Case di comunità non nascono. Avviamo oggi un processo di promozione e comunicazione che stimoli i territori e la conoscenza di questa tematica. Se non andiamo avanti in questa direzione, rischiamo che il progetto resti fermo oppure che venga attuato non in coerenza con la filosofia che lo ha generato. In poche parole, si andrebbe verso i poliambulatori di vecchia concezione, magari rinforzati con qualche professionista del sociale, o comunque verso le Case della salute di cui si parlava sino a poco tempo fa. Insomma, non sarebbero strutture in raccordo con la comunità. Noi poniamo la questione: se la politica non risponde all’invito, ne terremo conto. Quale che sia la parte politica».
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