Salute mentale

I dolori (e i dilemmi) del giovane caregiver

Uno studio britannico conferma che problemi di salute mentale si associano al lavoro di assistenza, aumentano con le ore dedicate a questa attività e al diminuire dell’età in cui si diventa caregivers. Nei più giovani i problemi persistono a lungo, anche per decenni

di Nicla Panciera

Prendersi cura di una persona malata o anziana non più autosufficiente per molte ore al giorno è un’attività impegnativa, spesso estenuante. Lo è ancor più se si è giovani adulti e si diventa caregiver informali, come sono definiti tutti coloro, per lo più donne, che si prendono cura senza remunerazione di un familiare o di un amico in stato di bisogno. La salute mentale è a rischio e il benessere venire compromesso a lungo.

Lo mostra uno studio tutto britannico apparso su The lancet public health, secondo cui la salute mentale inizia presto a peggiorare in chi diventa caregiver informale, che cioè si prende cura di un familiare o di una persona in stato di bisogno perché anziana o malata, senza ricevere uno stipendio. 

L’analisi è stata condotta su oltre 17.000 soggetti, già reclutati nell’Household Longitudinal Study tra il 2009 e il 2020 con l’obiettivo di studiare i cambiamenti nella salute mentale e fisica associati al diventare caregiver per la prima volta negli adulti di 16 anni. Dopo aver registrato le loro condizioni di salute otto anni prima, durante e otto anni dopo l’esserlo diventati, i ricercatori le hanno confrontate con la salute dei coetanei. Ebbene, i problemi di salute mentale si associano al lavoro di assistenza, aumentano all’aumentare delle ore dedicate a questa attività e al diminuire dell’età di inizio; inoltre, nei più giovani i problemi persistono a lungo, anche per decenni.

«La necessità di ricoprire il ruolo di caregiver informale può causare nella persona una forte riduzione del benessere psico-fisico, a causa di molteplici fattori spesso interconnessi tra di loro, che danno luogo ad un’esperienza di sofferenza intesa e complessa» spiega la psicologa clinica Marianna Masiero, ricercatrice dell’Istituto europeo di oncologia. «Da un lato è infatti possibile osservare un vissuto di sofferenza associato alla malattia del proprio caro, al timore della perdita e alle preoccupazioni per le possibili conseguenze che la malattia ha o potrebbe avere nel tempo. Dall’altro, vi è una sofferenza legata alle trasformazioni, ai cambiamenti e alle nuove richieste, che l’attività di cura pone alla persona che se ne fa carico».

Il New York Times si è occupato dell’argomento in un articolo dal titolo “La rabbia silenziosa dei caregiver” (The quite rage of caregivers), presentando la rabbia e la frustrazione, accompagnate dal conseguente senso di colpa, di chi da un giorno all’altro si ritrova non più figlio o compagna ma assistente a tempo pieno e spesso senza un appropriato riconoscimento. I centri Centers for disease control and prevention Cdc americani hanno già messo in guardia sui rischi per la salute di queste figure che chiama l’”ossatura” della cura a domicilio.


Come riflettono gli autori dello studio, con l’invecchiamento della popolazione e l’aumento del costo della vita, l’assistenza non retribuita a familiari e amici è diventata una parte sempre più importante dell’assistenza nella maggior parte dei paesi. Le Nazioni Unite stimano che i caregiver non retribuiti soddisfano il 75-90% dei bisogni di assistenza e, sebbene i giovani adulti siano spesso trascurati, costituiscono almeno 376.000 caregiver in tutto il Regno Unito.

Per l’epidemiologa sociale Anne McMunn dell’University College of London, autrice del lavoro, va ricordato che i giovani adulti sono impegnati nella costruzione di una rete di rapporti sociali, familiari e lavorativi che poco si conciliano con il lavoro di cura, vivendo «una fase in cui è probabile ci siano molti ruoli sociali in competizione come l’istruzione, le relazioni e la creazione di una carriera. È probabile, inoltre, che i giovani adulti che si prendono cura di un genitore vivano una difficile inversione di ruolo. Insieme, questi fattori potrebbero contribuire al motivo per cui il disagio psicologico è più elevato in questi gruppi di età».

Nei più giovani, «la malattia può richiedere di mettere in pausa o procrastinare alcune decisioni, se pensiamo alla coppia ad esempio quella della genitorialità, che può avere importanti ripercussioni sulla traiettoria di vita individuale» spiega la psicologa Marianna Masiero. «Similmente, l’integrazione dell’attività di cura, con la prosecuzione della propria attività professionale, richiede spesso un carico eccessivo, che consuma le energie fisiche e le risorse del caregiver, generando una situazione di intenso distress emotivo» e ciò può anche «essere associato a vissuti di colpa, legati al conflitto tra il dover accudire una persona cara e il bisogno di rispondere non solo alle richieste provenienti dal mondo esterno, come ad esempio quelle professionali o simili, ma anche ai bisogni e desideri interni emergenti che caratterizzano la propria vita. In questo contesto il senso di colpa nasce dalla percezione di fornire un’assistenza al proprio caro inadeguata rispetto ai propri standard interni e sociali».

«I più giovani vengono spesso trascurati poiché l’assistenza è vista come qualcosa che fanno i più anziani» ha dichiarato Rebecca Lacey, responsabile del lavoro e ricercatrice della University of London.  «Esortiamo i leader sanitari a prendere sul serio queste evidenze e a garantire che gli operatori sanitari identifichino rapidamente coloro che si prendono cura degli altri, compresi quelli che sono più giovani, in modo che anche la loro salute possa essere monitorata. Ciò sarà cruciale per interrompere il ciclo della necessità di assistenza».

Foto: Photo by Alexander Grey on Unsplash

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